E’ questo il titolo dell’album d’esordio dei Predarubia, rock band toscana all’attivo dal 2013 e composta dal cantante Giuseppe Pocai, il bassista Luca Mori, il chitarrista Massimo Triti ed il batterista Zivago Anchesi.
“Somewhere Boulevard” è uscito l’8 settembre dello scorso anno, su edizioni Latalantide e distribuito da Edel nei principali negozi di dischi e digital store. Perché se è vero che oggi viene privilegiato un ascolto digitale, è anche vero che le varie piattaforme, nonché i canali sviluppati in questo senso, non hanno niente a che fare con la musica immessa su supporto analogico, che non viene più concepita come mero spazio riempitivo tra il silenzio e l’altro, ma un’avventura, un viaggio mentale in cui compartecipano tutti i nostri sensi. Ecco allora che se da una parte abbiamo una proliferazione di modalità digital, dove il più delle volte si è dediti all’ascolto random, dall’altra rimane chi è ancora attaccato al supporto fisico del disco, in cui non è più l’ascoltatore a manovrare la playlist, e in cui una dopo l’altra possiamo assaporare le varie tracce, nell’ordine in cui sono state imposte, perché solo così, solo in questo preciso ordine, possiamo seguire quel percorso tracciato, e avere accesso al mondo custodito all’interno di un album e quindi di una storia.
Su tutto questo, gioca un ruolo fondamentale anche la copertina, la quale spesso è capace, con la sola forza di un’immagine, a dipingere il senso di un suono che in quell’istante in cui adoperiamo quello visivo, è colto dagli occhi: una sinestesia estetica in cui il movimento sensoriale non conosce confini e arriva ovunque, sino al futurismo. Non è un caso che la cover di “Somewhere Boulevard” sembra proprio ripristinare quelle linee, quei confini appunto, di un quadro di Umberto Boccioni, in cui ogni cosa, ogni oggetto riprende la forma che il movimento aveva quasi cancellato: i Predarubia sembrano voler ristabilire un ordine nel caos, un criterio, in cui la fermezza di una decisione, di un pensiero continua ad essere aperta ad un cambiamento, ma un cambiamento mai repentino, mai improvviso. Il progresso portato avanti dai futuristi, diventa nei Predarubia un’evoluzione musicale, capace di sfatare ogni mito…Un evolversi e un progredire continuo, un “progressive” che non è solo uno dei tanti generi esplorati, ma un vero e proprio stile, con il quale la band si approccia alla musica. Le sonorità prog avvertite in ogni brano del disco, in particolare nella traccia d’apertura, dove sono ridestate dalla loro matrice originaria, la quale, complice la voce del cantante, dipana ogni traccia di quella nebbia tipicamente inglese, illuminando le zone d’ombra con il sole californiano insieme a tutto quel filone country della west coast, inauguarato da un certo Dylan .
Indubbiamente i Predaurubia del vecchio e caro Bob sono debitori verso chi il Country lo ha dapprima preso alle radici, per poi estirpale del tutto, rinnovandolo attraverso il vigore del rock; inoltre la voce di Giuseppe Pocai sembra proprio sedimentarsi in colui che può in tutto e per tutto definirsi il figlio di questo genere, poi noto come Country rock, dato che stiamo parlando di Jakob Dylan e più esattamente del leader dei Wallflowers negli anni ’90, ebbero notevole fortuna. Da questa band poco nota in Italia, i Predarubia, sembrano proprio assorbire quella volontà, magari inconscia, di coniugare la musica tradizionale americana, con il rock melodico inglese: un’idea che non si ferma però semplicemente al country e a alle band più rappresentative del rock britannico: la band toscana va oltre e, l’approfondimento delle radici americane arriva fino al gospel. Cosicché la cavernosità della voce di Giuseppe, che a tratti ricorda pure un certo Eddie Vedder (“Yesterday”), si rifugia nell’antro della nostra interiorità più cupa che dal brio del gospel viene rischiarata, assumendone tutta la spiritualità e che in “Waiting Song” grazie all’uso sapiente dei cori, i quali sono forniti niente di meno che dai componenti dei Predarubia, si innalza verso dimensioni inesplorate.
E fino ad ora inesplorati, rimanevano, da parte di una rock band tutta italiana e soltanto agli esordi è l’idea di mettere sempre a tema le chitarre, che non lasciano mai in secondo piano il resto della strumentazione, e soprattutto come tali chitarre sviluppino in ogni brano, una tematica diversa: da distorte (“Not in My name”), si ammorbidiscono nella traccia successiva, “Carousel”, dove emerge il basso di Luca Mori che non molla la presa nel brano seguente “Rip”. E proprio in “Rip”, le chitarre riprendono vigore nel bel mezzo di sfibranti assoli inseguiti a pieno ritmo dalla batteria di Zivago Anchesi. E quale prova migliore affidare ad un brano che porta il titolo di uno dei pezzi più famosi della storia, qual è “Yesterday”? Qui il cantante imbraccia la sua fender, imbracciando con essa un tempo ormai andato, quello del passato, che ci obbliga a guardare indietro, a ciò che poteva essere… Tuttavia occorre, ad un certo punto, lasciarsi questo passato alle spalle, prendere coscienza che “Ieri era ieri; oggi è solo oggi” (“Yesterday was yesterday, today is just today”)
Ma non c’è brano in “Somewhere Boulevard” in cui non emerga la vocalità di Giusppe Pocai, la quale assurge anch’essa a strumento, anzi, più precisamente, la matassa da cui si imbastisce poi il resto della strumentazione è proprio il timbro del cantante: una voce che pare provenire da chissà quale luogo e quale spazio, superando qualsiasi linea temporale ma che, nel momento in cui viene emessa, non suggerisce altro che spontaneità; spontaneità che non è un non prendere posizione ma, il lasciare all’ascoltatore, la sua interpretazione, la sua lettura finale: a lui l’ultima parola, come in “A girl named Hope” dove tutto risulta quasi ingannevole. La speranza è il suo nome, ma le promesse sono infrante….La speranza ci ha sedotto, come la musica di questo brano, l’andamento che da pacato e introspettivo, estroflette ogni nostra convinzione e rovescia ogni certezza, trasportandoci lontano dalla nostra mente, ponendo fine alla nostra capacità di discernere. E la morbidezza di “A girl named Hope”, si amalgama perfettamente alla voce impastata del cantante e qui, il richiamo a Bruce Springsteen è imprescindibile, come è il riecheggiare del country rock dei primi anni ’70, dei quali i Predarubia acquisiscono notevoli influenze, che in “A girl named Hope”, li dirigono verso i Creedence Clearwater Revival.
Il brano che segue è sintetizzato in non oltre due minuti per un inno alla libertà che nei cori prende tutto l’impeto e da un “Somewhere boulevard”, ci ritroviamo improvvisamente sulla Route 66, dove i Predarubia prendono a prestito dalla storica “Rocking in the free world” di Neil Young qualche assolo nei secondi finali di “Intermezzo”, per poi riprenderla del tutto con la ghost track a seguito dell’ultimo brano del disco.
A scaraventarci tutta la carica del southern rock ci pensano due tracce “Somewhere baby” e “One Day”, la seconda delle quali, risponde al coro che s’impone su uno sfondo di potenti colpi di batteria a scandire una velocità e un ritmo, che va in un crescendo continuo.
La fiamma scintillante che scaturisce dal calore della voce di Pocai divampa in “Haeven unnecessary” assieme al richiamo dell’intramontabile “No Surrender” di Springsteen.
Anche qui come “In a Girl named Hope”, le prime sensazioni, non sono per forza quelle che poi ci rimangono, o meglio, c’è ben altro…dietro tutta questa ostentazione di entusiasmo, c’è sempre una sottile vena di malinconia, quella stessa che Springsteen racconta in “The Promised land” e che i Predarubia, forse non a caso, citano proprio in “Haeven unnecessary.
Introdotta dalla magia un pianoforte suonato dal cantante, “The waiting song” sopraggiunge prima della traccia di chiusura e, in un susseguirsi di corde di chitarra imbrigliate da un guardarsi indietro che ancora ci lega al passato, a quel Yesterday di qualche brano fa, le chitarre di Triti, stridendo tra di loro e contro tutto ciò che è stato detto finora, ci fanno ripercorrere a ritroso tutti i luoghi finora visitati, le emozioni vissute, quel senso di ritorno da un lungo viaggio, intrapreso dalla musica, ma anche dalla nostra mente, dove ora sentiamo il bisogno di fare il punto, di capire chi siamo, di conoscere meglio noi stessi, di capire se questa è stata la strada giusta, in modo poi da poter proseguire per l’ultimo tratto che ci porterà a destinazione.
E nell’undicesima traccia le distanze sono annullate completamente, non solo quelle musicali: le distanze temporali, senza alcuna remora, prendono pieno possesso di questa ultima traccia, dove il basso di Luca Mori, sferra colpi dissonanti che, con le chitarre, intersecano tutta la storia della musica americana, arrivando fino al blues, ma tenendo sempre saldo sul country rock e quel gospel che da Ray Charles in poi, senza perdere la sua dimensione spirituale, ha ampliato gli orizzonti, inondando anche quelli del rock e del blues.
E questi stessi orizzonti ora, sono lambiti dalle onde sonore dei Predarubia che portando alla superficie, i nostri spettri abissali, i quali, incanalandosi lungo il “Somewhere Boulevard”, li avvertiamo estinguersi dalla corrente della psichedelica che avvolge ogni stato del loro sound.
“Non ci sono motivi per sentirsi sbagliati, e niente cambia se proveniamo da luoghi diversi….” “quando ti guardi intorno, tu non sei solo…IN THE DISTANCE like brothers”
E così dall’ondata della New wave nella quale “Not in My name” ci immerge, dove sono indiscutibili le influenze dei uno dei gruppi più rapprestativi del genere, quali i Simple Minds, ci ritroviamo a salpare verso mari di rock dalle più nobili ascendenze, e da quelle più grezze del southern, fino ad approdare ad un gospel illuminante che ci depura da ogni tormento interiore.
A cura di Sonia Bellin