Pietro Romano. Foto di Paolo Stucchi
Pietro Romano. Foto di Paolo Stucchi

Pietro Romano: amo guardare il mondo con gli occhi di un bambino

Pietro Romano è nato e cresciuto nello spettacolo, in un clima legato a tale aspetto, qualcosa a cui mai potrà rinunciare. In questa intervista ci parlerà della sua esperienza in “Next”, ad opera di Giulietta Revel, e dello spettacolo di cui è protagonista, “Il malato immaginario”.

Una persona riservata, Romano, che ama ancora guardare il mondo con gli occhi di un bambino.

Benvenuto su La Gazzetta dello Spettacolo, Pietro Romano. Come procede il tuo vissuto?

Bene, grazie! Finalmente, dopo la stasi forzata a causa della pandemia, si respira aria di ripartenza, in tutti i sensi. Sono stati anni complessi, segnati da forti perplessità sul futuro, di ogni natura: sociali, umane, professionali. Il fatto di, per usare un’espressione à la page, “pensarsi liberi”, motiva fortemente a guardare avanti con ottimismo.

“Next”, ad opera di Giulietta Revel, ti vedrà presto impegnato al cinema, da aprile. Parlaci di questa esperienza e di come ti sei preparato ad affrontare questo nuovo ruolo?

Nella scelta di accettare la proposta hanno vinto due aspetti, senza nulla togliere alla vicenda artistica e professionale già lusinghiera di per sé. Una giovane produzione che abbia pensato a me per un ruolo importante, in primis, e un cast superlativo: Paolo Conticini, Alessandro Haber, Barbara Bouchet, Corinne Cléry, Daniela Terreri, Debora Caprioglio, Fabio Fulco, Jonis Bascir e la stessa Giulietta Revel che interpreta il ruolo della protagonista femminile. A sorprendermi, più di tutto, la dinamica che ha mosso l’evolversi dei fatti, intrecciati in una trama tessuta da amicizie concatenate tra loro. La talentuosa collega, nonché amica, Daniela Terreri, conoscendo il progetto della sua amica e collega Giulietta Revel, ha proposto il mio nome. La Revel, di suo, è venuta a vedermi in teatro. Tengo molto a far sapere ciò perché è importante che si sappia che generosità, intelligenza, stima, fiducia, sono valori che arricchiscono il nostro ambiente. Cose di cui, purtroppo, si parla molto poco.

Pietro Romano impegnato nella recitazione sin da bambino, grazie alla tua famiglia, all’amore che hai sempre respirato per questo mestiere. Che ricordo hai dei tuoi inizi, dunque, e dei consigli ricevuti da parte dei tuoi cari?

Nascere in una famiglia di artisti, con una mamma impegnata nella lirica e un padre alle prese anche con il cinema, mi ha fatto sentire, sin da subito, in un “chi è di scena”, sin dal risveglio. Un’arma a doppio taglio, talvolta, perché sicuramente ti colloca nella condizione di conoscere l’ambiente e comprendere da subito quali siano i percorsi adeguati. Al contempo, ciò ti dà anche maggiore consapevolezza del fatto che il nostro sia un mestiere per il quale serva il coraggio del sacrificio. Ciò fino a quando non si acquisisce la giusta popolarità che possa fare “il resto” e, non sempre è detto che accada. Avevo undici anni ed ero ai miei primi impegni artistici al Teatro dell’Opera come piccolo attore nel coro delle voci bianche. All’epoca mi si insegnavano rigore e disciplina, che nel nostro lavoro sono fondamentali. Ai miei genitori devo moltissimi insegnamenti ma, se dovessi classificarli, sicuramente il primo sarebbe quello legato all’umiltà. Nel nostro mestiere è fondamentale poter avere un’intelligenza acuta e discreta, che permetta di imparare da chi si riconosce “più grande”. La nostra è una professione in continua evoluzione, che darà sempre ragioni ed opportunità di crescita. Occorre sapersi guardare intorno e non sentirsi mai “arrivati”.

Tanti gli spettacoli teatrali a cui hai preso parte. Quale ti è rimasto maggiormente nel cuore?

Sicuramente la commedia musicale è tra i miei più grandi amori: negli anni ’90 entrai a far parte di una giovane compagnia romana che ebbe l’ardire di tuffarsi in esperienze artistiche interessanti, scegliendo di devolvere la totalità degli incassi per scopi benefici. L’avventura durò diversi anni. Interpretai Don Silvestro, protagonista di “Aggiungi Un Posto a Tavola”. Furono tanti i complimenti ricevuti, in quel periodo. Tra questi, Pietro Garinei. Nonostante la giovane età, fu un piacere essere definito “erede” del grande Gigi Proietti per la mia interpretazione del suo stesso ruolo ne “I Sette Re di Roma”. Esperienze che segnano indelebilmente il cuore. Indimenticabili anche le collaborazioni con il mio caro maestro Gino Landi, recentemente scomparso. Porterò con me, per sempre, tutti i lavori a cui ho preso parte, di qualsiasi portata siano stati.

Pietro Romano. Foto di Roberto Passeri
Pietro Romano. Foto di Roberto Passeri

Dal 12 aprile sei in scena a Roma, al Teatro Tirso di Molina, ne “Il malato immaginario”. Una nuova esperienza, un altro ruolo da mostrare al tuo pubblico. Cosa puoi dirci a riguardo?

Le trasposizioni dialettali dei classici in dialetto romanesco hanno delineato, in qualche modo, il mio percorso artistico, che da anni si avvale della mia appassionata romanità. Da una parte ho sentito l’esigenza di inventare, se posso permettermi, una strategia letteraria e culturale. Quando ebbi la percezione che certe opere sarebbero state messe in scena sempre meno, mi chiesi come avrebbero fatto le nuove generazioni ad innamorarsi dell’arte di Goldoni, di Moliere, ma anche di Scarpetta. A ciò si aggiunse il timore che il nostro splendido dialetto stesse decadendo a causa dell’assunzione di nuovi linguaggi che definiamo “coatti”. “Il Malato Immaginario” è un’opera straordinaria, in grado di offrire un’infinità di requisiti, dall’introspezione ai sani valori. Prodotta da “Aurora Produzioni”, si ride a crepapelle. Perché tutto questo avvenga è necessario un cast d’eccezione, che identifichi l’energia dell’intera squadra. Al mio fianco, nello spettacolo che dirigerò e nel quale ricoprirò il ruolo di Argante: Carmelo Cannata, Francesca Ceci, Lallo Circosta, Antonio Covatta, Beatrice D’Arienzo, Riccardo Graziosi e Giulia Romano. Vivo per il gusto di potermi “donare”, artisticamente parlando, e per la gioia di essere compreso, atteso, applaudito, lungo questo straordinario segmento, dalla scena alla platea, di amore reciproco.

Quali sensazioni sono legate al teatro, alle tavole del palcoscenico e quanto ti è mancato durante il lockdown che ha reso inerme ogni forma d’arte e non solo?

Per noi artisti il lockdown non ha solo rappresentato la chiusura della nostra attività, cosa che sarebbe stata già grave di per sé, come per tutti. Il lockdown ci ha privati della nostra emozionalità, della relazionalità che per un artista, soprattutto in teatro, è determinante. Alla base del talento, indispensabile, deve esserci la capacità, ma anche la necessità di mettersi in gioco attraverso il proprio potenziale emotivo. il personaggio che ami deve poter soffrire, scherzare e non solo e per farlo deve tutto ciò all’attore che, per essere credibile, deve poterlo interpretare alla perfezione.

Chi è Pietro Romano al di là del suo essere artista?

Mi ritengo una persona estremamente riservata, nonostante quel che appaia di me sulla scena. Sono paradossalmente timido, piuttosto tranquillo e maturo. Il lato che mi piace far emergere è, tuttavia, quello che alcuni definiscono “infantile”, e per altri è, invece, “sindrome di Peter Pan”. Dal mio canto, mantenere l’abilità di saper guardare il mondo con gli occhi di un bambino, godere di quella libertà e aspirare a quella fantasia, rimane il valore aggiunto.

Puoi anticiparci altro sul tuo futuro artistico Pietro Romano?

Diciamo pure che potrei anche aspettare una telefonata miracolosa e magari riservare qualche particolare “scottante” per la prossima intervista. Scherzi a parte, per ora mi limito a continuare a sognare il cinema, magari, chissà, a fianco dei grandi maestri del nostro tempo, e il teatro, in particolare la commedia musicale che nel mio “cassetto segreto” rimane da sempre capitanata da Rugantino. A parte qualcosa che potrebbe bollire in pentola, si sa, nel cuore dell’artista, è quasi impercettibile il filo che separa i progetti dai sogni…

Su Alessia Giallonardo

Nasco a Benevento, nel 1986. testarda a più non posso, perché Toro. Amo la fotografia sin da quando ero piccola e devo questa passione a mio padre. Stesso discorso per la scrittura, per ogni singola sfumatura di un racconto, di un vissuto, di uno storico incontro.

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