Per la rubrica Libri e Scrittori, incontriamo Paola Migliacci, autrice romana che ha esordito sul panorama editoriale italiano con il romanzo “Grano Nero” (Another Coffee Stories Editore) partecipando al Premio Campiello e raccogliendo consensi favorevoli da parte di addetti ai lavori e non alla presentazione del Salone del Libro di Torino dello scorso maggio.
La storia narrata ruota attorno alla protagonista Alice, una bambina abbandonata dalla madre nel manicomio Sant’Artemio di Treviso all’età di soli dieci anni. Katrin, una psichiatra desiderosa di diventare madre, elabora un piano diabolico per non perdere l’uomo che ama, scendendo a patti con la stessa follia dei pazienti. Ma l’arrivo del nuovo direttore, Ottavio Mastrelli, offre ad Alice una possibilità di liberazione dalla reclusione forzata che rischia di condurla alla follia.
Nelle sue pagine Paola Migliacci indaga il potere, il controllo e la lotta per la libertà individuale, temi che ancora oggi trovano risonanza nelle nostre esistenze e, proprio per spingere alla riflessione e all’identificazione con i personaggi, il romanzo verrà trasformato in uno spettacolo teatrale. La prima rappresentazione avrà luogo il 23 Marzo 2024 a Bergamo, grazie alla collaborazione tra Another Coffe Vision di Anna Giada Altomare e Mario Congiusti e il talentuoso regista Antonio Nardelli della compagnia TeensPark – Teatro folli Idee.
Paola Migliacci benvenuta su La Gazzetta dello Spettacolo. Come è stato il processo di scrittura per te e cosa ti ha ispirato durante la creazione di questo romanzo?
Grazie di avermi “invitata” nella vostra rubrica. È un piacere per me rispondere a queste domande.
Scrivere questo romanzo è stata un’esperienza simile a quella di un viaggio di esplorazione, nel quale finché non ci si addentra nella foresta non si sa che cosa si troverà.
Proprio come in un’esplorazione, il sentimento dominante è stato lo stupore. Stupore per la forma che prendevano naturalmente quelli che erano labirinti di parole e immagini. Stupore per l’indipendenza dei miei personaggi, per lo spazio che si conquistavano e la direzione che seguivano in maniera autonoma, quasi prescindendo da me. E stupore per tutto ciò che nel percorso riuscivo a mettere a fuoco di questa storia, capendo con sempre maggiore certezza che era proprio quella che mi interessava scrivere.
La particolarità del viaggio, in effetti, è stata quella di essere stato fatto allo stesso tempo fuori e dentro di me.
Non credo a un’ispirazione provvisoria e imprevedibile, che arriva come un fulmine a ciel sereno, ma credo nella necessità di un’idea convincente dalla quale partire e poi nel duro lavoro, nella disciplina quotidiana.
Come è stato lavorare con Another Coffee Stories come editore e con l’illustratrice Lucia Ferrari per la realizzazione di “Grano Nero”?
Come autrice, mi sono sentita seguita con scrupolo in ogni aspetto del percorso che ha portato all’uscita del libro. Come persona, mi sono sentita accolta in una famiglia. Non potrei parlare della mia esperienza con Another Coffee Stories senza menzionare l’aspetto umano, che ha da subito abbattuto ogni barriera formale e mi ha messo completamente a mio agio. Ho trovato un equilibrio magnifico tra professionalità e capacità di contatto anche al di là del rapporto di lavoro che ci legava. Sono stata ascoltata, rispettata, aiutata, e per me è stato importantissimo poter portare avanti un progetto così importante avendo la sensazione di essere in una seconda casa.
Anche per quanto riguarda il rapporto con l’illustratrice, non potrei ritenermi più soddisfatta. A differenza di quello che accade in altre realtà editoriali sono stata coinvolta pure nell’aspetto grafico, nella realizzazione della copertina, e la cosa ha contribuito a farmi sentire protagonista di tutto ciò che riguardava il mio lavoro, proprio come secondo me dovrebbe essere.
Fin qui la critica è stata assolutamente favorevole: quali sono le tue speranze per il pubblico che leggerà in futuro il tuo romanzo e quale impatto ti piacerebbe che avesse sulla sua percezione e comprensione della Storia?
Spero che chi leggerà il romanzo possa, attraverso la storia narrata, capire che non è possibile occultare ciò che succede, ma c’è una maniera sana di relazionarcisi. La memoria a volte è affetta da patologie. L’oblio, che tenta di rimuovere il passato, e il contrario dell’oblio, che a quel passato si ancora al punto che il presente ne risulta schiacciato e non c’è possibilità di generare il futuro. In Grano Nero non è così: il futuro esiste, la memoria restituita attraverso i personaggi non è castrante, ma è anzi la strada perché chiunque sia stato abbandonato o rifiutato possa avere le sue resurrezioni.
Mi piacerebbe che la storia che racconto riflettesse l’idea che anche le logiche di potere e dominio più aberranti possono essere scardinate dall’amore, e che in qualche modo una vita al di fuori di certi schemi è realizzabile. Oggi, sempre più, c’è bisogno di stabilire legami sociali che favoriscano un senso di comunità, nella tutela e nel rispetto della libertà personale di ciascuno. Grano Nero parla in gran parte di questo, e mi auguro che chi lo legge possa comprenderlo con chiarezza.
Oltre a “Grano Nero”, hai altri progetti in cantiere nel mondo della scrittura Paola Migliacci?
Sto scrivendo proprio in queste settimane l’adattamento teatrale di Grano Nero e sono impegnata da tempo nella stesura del mio secondo romanzo: la storia, ambientata all’inizio del Novecento tra la Sicilia e la Francia, di una donna che con grande coraggio riesce a valicare i confini non solo fisici di un piccolo paese, salvando il figlio da un padre brutale e trovando lungo un percorso imprevedibile una nuova identità sociale. Una storia al contempo individuale e politica, che smuove temi per me preziosi e per cui è stata necessaria molta ricerca.
Che cosa consiglierebbe Paola Migliacci ai tuoi colleghi in preda alla famosa La Sindrome della Pagina Bianca?
Di non insistere a tutti i costi se qualcosa non viene nel momento in cui si vorrebbe. Di provare magari a fregarsene della cronologia, se si tratta di autrici e autori che procedono in ordine, e di scrivere una scena che è previsto sia più avanti nell’intreccio. O di fare un lavoro sui personaggi, ad esempio scrivere un racconto breve che abbia come protagonista uno di loro. O, ancora, scrivere qualcosa che non è collegato al progetto, anche magari della sindrome della pagina bianca o di quello che si è fatto quella mattina. E se proprio non viene nulla, allora una buona idea è provare a spezzare. Per me funziona molto bene lo sport, stancarmi fisicamente, ma anche soltanto una passeggiata può giovare.
Infine, puoi dirci qualcosa di più su di te come autrice? Quali aggettivi potrebbero descriverti al meglio come donna e come scrittrice?
Prima di essere un’autrice, sono una grande lettrice. Penso che le due dimensioni non possano essere considerate separatamente, e le mie attitudini di lettrice si riflettono anche sul mio lavoro. Procedo lentamente, con una attenzione estrema al particolare, alla ricerca del termine giusto. Scrivo, cancello, riscrivo, e ho imparato col tempo a gestire un’ansia quasi cronica nel far leggere le mie cose.
Tre aggettivi credo che mi descrivano bene: audace, testarda e riconoscente.