Siamo come le lumache, di Laura Moreni
Siamo come le lumache, di Laura Moreni

Siamo come le lumache, di Laura Moreni

Laura Moreni è nata a Brescia nel 1975. Laureata in Scienze della Comunicazione, con una tesi sulla figura della donna nella sfera pubblica, lavora come freelance nella redazione di testi o articoli per blog e siti internet, e si occupa di correzione bozze per diverse case editrici. Siamo come le lumache è il suo primo romanzo che vi raccontiamo per la nostra rubrica “Libri e Scrittori“.

Il libro di Laura Moreni è disponibile di seguito:

Benvenuta, Laura Moreni, su La Gazzetta dello Spettacolo. Spesso abbiamo la tendenza, noi umani, ad accostare alcune caratteristiche caratteriali più o meno lodevoli tipiche del nostro genere ad alcune che ritroviamo nei comportamenti degli animali. Il titolo e il suo significato ne sono un esempio?

Sì, è facile attingere dal mondo animale per trovare similitudini e metafore che, in qualche modo, aiutino a spiegare l’animo umano. Del resto, sin da Esopo e Fedro, la letteratura è ricca di esempi; forse “umanizzare” il regno animale ci illude di poter comprendere e illustrare meglio i nostri meccanismi. Ne siamo più o meno consapevoli, quando scriviamo.

Siamo come le lumache è un titolo che nasce però al contrario: rileggendo alcuni passaggi del testo mi sono imbattuta in questa espressione, che proviene da uno dei miei personaggi, e ho pensato che fosse perfetta per rappresentare la storia. Esprime nell’immediato il concetto di lentezza, e calza bene al procedere nel tempo dei miei protagonisti, frenati dagli eventi che li hanno segnati in gioventù; c’è una sensazione di non avanzamento, soprattutto da un punto di vista emotivo, che li accompagna per tutta la narrazione. In realtà non è così: tutti hanno uno sviluppo, un’evoluzione; vanno avanti piano, ma con costanza.

Un’altra caratteristica delle lumache è la loro bava, il segno traslucido che lasciano al loro passaggio, e anche questo mi ha ricondotto alla storia: per la natura dei rapporti tra loro, ogni azione dei miei personaggi imprime un segno, una specie di traccia, e, senza volerlo, influenza le vite degli altri.

E, infine, c’è il guscio: tutti loro, Anita e Tilda, ma anche Gubo e Dodi, hanno la tendenza a ritirarsi, a chiudersi in se stessi quando le difficoltà emozionali si fanno troppo oppressive. Si nascondono per un po’, al riparo, dietro al loro privato fardello che, via via, diventa per ognuno anche una sicurezza, una specie di casa dove sentirsi protetti.

Siamo come le lumache mi è parso quindi un titolo emblematico, ancor più considerando il passaggio-chiave da cui è estrapolato, che ogni lettore riconosce. Esprime a vari livelli tutti questi significati, in un’associazione immediata, automatica. E poi l’ho trovato originale, mi piaceva.

Per precisione, aggiungo una curiosità: avrei dovuto chiamarle “chiocciole”, non lumache (scientificamente infatti queste ultime sono prive di guscio). Ma nel linguaggio lombardo il termine “lumaca” riferisce immediatamente all’immagine della chiocciola. E così ho deciso di mantenere la scelta del parlato, adottata naturalmente dal mio personaggio.

Laura Moreni una telefonata imprevista, ricevuta di domenica mattina, turba la tranquillità e la monotonia della vita di Tilda che, costretta a partire all’improvviso, affronta con riluttanza un ritorno alle sue zone d’origine da tempo rimandato. Già in passato ti sei occupata della figura femminile, oggi attraverso Tilda fai lo stesso?

In passato mi sono occupata di una questione storica, cioè dell’affermazione della figura femminile all’interno della sfera pubblica, attraverso il lavoro, l’apporto dato e i (lenti) cambiamenti sociali; e anche attraverso il raggiungimento di luoghi consacrati al maschile, in cui le donne, per ottenere delle migliorie, hanno dovuto scontrarsi e adeguarsi a un linguaggio e a una modalità che fino a quel momento erano loro estranei.

Nel mio romanzo, invece, attraverso la storia di Tilda, ho cercato di raccontare le dinamiche, le reazioni e le insicurezze che possono segnare l’intera esistenza di una donna. Tilda soffre di obesità, una patologia che non si affranca da un riflesso esterno e quindi, purtroppo, da un pregiudizio sociale (ancora), e in qualche modo anche pubblico. Nel libro Tilda è capace di leggersi, di capirsi, e forse di cambiare rotta, ma ciò che la caratterizza è l’impossibilità di sentirsi “a posto”, di appartenere a una situazione, a un luogo, nonostante il romanzo sia ambientato nel 2019, cioè nella nostra attuale realtà; un’epoca in cui, all’apparenza, ognuno è libero di essere e di apparire.

Sono molto attratta dai meccanismi dell’animo umano, e ancor più da quelli femminili: le donne hanno una modalità più complessa, rispetto agli uomini, di espressione e di realizzazione di loro stesse. Credo purtroppo che secoli di oppressione culturale e sociale abbiano lasciato un’impronta tutt’ora visibile: resiste una complicanza di fondo, una difficoltà latente nella coscienza, comune e individuale, a vivere secondo una personale libertà; non ha nulla a che vedere con la questione femminista, mi riferisco a una libertà interiore di crescita, di affermazione, di rispetto della propria esistenza, che dovrebbe dipendere da una propria etica e non dal riconoscimento di sé dettato dai ruoli. Ancora troppe donne, secondo me, si identificano in qualità di mogli, madri, figlie, alcune nel loro lavoro o nel loro aspetto, ma fanno fatica a trovare se stesse quando sono slegate dalle etichette. Credo che sia questo, il passaggio che manca.

Sull’identificazione delle donne con il loro ruolo sto lavorando anche adesso, nel romanzo che sto scrivendo. Sto cercando di rompere uno schema, e anche un tabù; ci tengo molto perché sento che in questo periodo le donne ne hanno un bisogno disperato: c’è troppa confusione e troppa aspettativa. E il concetto di fluidità, ormai onnipresente nel linguaggio pubblico e sociale (di nuovo), temo stia rendendo ancora più insicura la sensibilità femminile nel processo di riconoscimento e validazione di sé.

Per farla breve: non credo che i cambiamenti possano provenire da un’emancipazione esterna se essa non scaturisce da un’emancipazione strutturale e profonda della persona.

Laura Moreni uscire sul mercato editoriale come autrice e lavorare dietro la scrivania come redattrice ed editor. Cambia la prospettiva?

Sì, assolutamente.

Per scrivere un articolo, un post, un pezzo commissionato, è necessario avere familiarità e competenza con la materia e definire a priori lo spazio; per la sua essenza, però, un articolo è un testo argomentativo o descrittivo, anche quando è pubblicitario, e non richiede un lavoro di architettura come quello che presiede a un romanzo. Si va al nocciolo, insomma. Inoltre raramente qualcuno bada allo stile, alla prosa, all’armonia del lessico o all’equilibrio interno. Si considera la sua efficacia.

Il lavoro dell’editor è un altro ancora; esige una certa rigidità e, allo stesso tempo, molta elasticità mentale e immaginazione. La rigidità è necessaria per seguire il filo logico e non perderlo mentre ci si accerta che tutta l’impalcatura regga: si deve controllare la coerenza interna di un romanzo, l’equilibrio della struttura, la funzionalità del dialogo, l’impatto dei personaggi e la loro credibilità; in generale, la verosimiglianza della storia. L’elasticità è necessaria invece per “immaginare”: spesso un romanzo migliora e trova la propria originalità spostando qualche capitolo, togliendone un altro, eliminando un personaggio che crea confusione; cambiando l’incipit o il finale. Sono molteplici i compiti di un buon editor, nessuno più importante degli altri. È sempre fondamentale, però, l’empatia con l’autore: è l’autore che deve mettere mano alle pagine.

Come autore, infine, esiste un unico obiettivo: raccontare la propria storia. Si cerca di farlo nel modo più piacevole possibile per il lettore, selezionando il linguaggio e le modalità più pertinenti al proprio stile e all’intenzione di partenza, ponderando accuratamente l’effetto che si vuole ottenere. L’esperienza e la pratica sono fondamentali, soprattutto nella costruzione di un romanzo, ma non è affatto un’impresa semplice. E sono altrettanto fondamentali le riscritture, i controlli, diverse revisioni; altri occhi, anche: occhi esterni che leggano in maniera neutra e propositiva.

Soprattutto, però, bisogna avere qualcosa da dire: è vero che spesso sono le storie a “chiamare”, entrano in testa e ti ossessionano, e non se ne vanno finché non ti decidi a scriverle; però devono avere un significato, devono condurre da qualche parte. Non amo i libri scritti senza una fiamma, al loro interno, che brucia: si percepisce quando manca e non sono altro che un esercizio di stile, spesso mal riuscito. In generale non mi lasciano molto.

Sopravvivere alternando questi aspetti della scrittura è complicato, perché ognuna delle figure richiede attenzioni e attitudini diverse. Io mi riconosco soprattutto in veste di autrice: per me non è un lavoro, è una necessità. Infatti quando sono immersa nella scrittura, nella fase creativa della scrittura, preferisco non dovermi occupare di altri testi: uscire dal mood è uno sforzo, una violenza, e poi fatico a ritrovarlo.

Laura Moreni il tuo romanzo è nato da uno stimolo reale. Qual è il messaggio finale?

Non avevo un messaggio finale. Volevo forse accendere una lampadina nel mio lettore, portarlo a farsi qualche domanda. Mi piaceva “cantare” della vita e di tutte le sue contraddizioni, delle occasioni accolte e di quelle perdute; di amori, di amicizie, di problemi e di gioia. Di crescita. Tutto questo naturalmente scaturisce dalla mia riflessione personale, dai miei bilanci. Ne ho parlato più volte: credo sia necessario, ogni tanto, fermarsi e guardare. Guardare dentro, guardare fuori: riconoscere il fil rouge della nostra esistenza per non smarrirlo, tenerlo ben saldo. Oppure sostituirlo, se è troppo sfilacciato!

Infine, Laura Moreni nel tuo libro parli di scelte che condizionano il resto della vita, a volte anche attraverso lo sviluppo di disagi o patologie importanti. Dacci un ulteriore spunto di riflessione.

Spesso ce ne dimentichiamo, ma ogni scelta, anche la più superficiale, la più trascurabile, ha degli effetti sulla nostra vita, nel breve o nel lungo periodo. Le scelte non sono un’opzione, sono inevitabili, e in fondo è proprio la possibilità di valutare, di decidere, ciò che ci rende umani; il ben noto libero arbitrio. Purtroppo è facile sbagliare, fa parte del nostro non sapere: si agisce per quello che si ritiene il meglio in una data circostanza, e “il meglio” è sempre soggettivo, del tutto dipendente dalla propria storia. Così è impossibile prendere decisioni sempre giuste o sempre sbagliate, noi tutti lo sappiamo. Scegliere è sempre un rischio. Penso che il nostro vero limite, infatti, sia il tentativo ostinato di non scegliere, di restare immobili e di aprirci alle eventualità; mantenere uno status quo che ci conforta perché lo conosciamo. È un atteggiamento che blocca, impedisce l’evoluzione personale. È lì che nascono i disagi. E, se nella norma si tratta di tendenze difensive, che in qualche misura sviluppiamo tutti, quando non vengono riconosciute possono davvero ingigantirsi e condurre a patologie serie. È paura, ed è naturale fino a un certo livello, ma la vita è in continuo movimento, non è mai statica; dovremmo essere in grado di adeguarci al suo oscillare e ai cambiamenti che comporta, anche se qualche volta, inevitabilmente, si cade. Meglio essere fluidi come l’acqua che rigidi (e pesanti) come le pietre. I latini lo dicevano: “Gutta cavat lapidem”: una goccia è capace di incidere la pietra. Penso che l’acqua, con la sua proprietà di adattarsi alle situazioni, sia un’ottima metafora per la vita. Lo è anche nella scrittura, per quanto mi riguarda: senza volerlo uso molto le immagini dell’acqua quando scrivo. È un elemento che mi stimola.

Su Francesca Ghezzani

Giornalista, addetto stampa, autrice e conduttrice di programmi televisivi e radiofonici. In passato ha collaborato con istituti in qualità di docente di comunicazione ed eventi.

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