Una piacevole chiacchierata con l’attore Michele D’Anca, da qualche tempo maggiormente dedito al doppiaggio, alla scrittura di alcune sceneggiature. Un uomo consapevole di quanto sia bella la recitazione seppure sia difficile, complicata.
Benvenuto su La Gazzetta dello Spettacolo, Michele D’Anca. Affrontiamo insieme un breve excursus legato ai tuoi inizi, alla tua passione per la recitazione?
Il mio istinto creativo si è espresso fin da bambino, disegnavo molto bene, tanto che più tardi avrei voluto frequentare un Liceo artistico ma ciò non fu possibile. Inoltre, già a quattordici anni suonavo la batteria in una rock band e a diciassette iniziai a studiare danza, classica e moderna. Ciò mi permise di lavorare in un musical per Rai3 dal titolo “Signorine grandi firme”, la mia prima esperienza lavorativa nel mondo dello spettacolo. Il regista, Mauro Severino, vide in me del talento e fu il mio mentore: mi spronò a studiare in una scuola di recitazione. Rientrato a Roma mi iscrissi a una scuola di teatro, entrai poi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico e fu così che iniziai la mia carriera d’attore professionista. Ho lavorato con registi importanti, a cominciare da Ronconi, Patroni Griffi, Sepe, Scaparro e molti altri.
Per quindici anni ho recitato in palcoscenico in lunghe tournée in giro per l’Italia ma desideravo altro: il cinema e la televisione. Successivamente ho lavorato in numerose fiction televisive per poi entrare nel cast fisso di “Cento Vetrine” col ruolo di Sebastian Castelli. Un’esperienza intensa e bellissima che mi ha dato l’opportunità di farmi conoscere dal vasto pubblico televisivo. Una palestra quotidiana, “Cento Vetrine”, grazie alla lunga serialità.
Che ricordo porti con te di quel periodo e dei colleghi di set?
Ho dei ricordi bellissimi, anche per via del clima che si viveva, da grande famiglia. Cinque anni di vera ‘palestra’ con un bellissimo ruolo. Un personaggio che ha avuto l’opportunità di essere protagonista nelle trame centrali e di essere affiancato a colleghe di talento come la Coraini e la De Micheli. Ho cercato di dare al prodotto il meglio di me. Vi ho lavorato con lo stesso impegno che avrei profuso in un importante film per il cinema. In Italia, purtroppo, i produttori pensano che un attore che abbia fatto soap non possa lavorare in cinema o in produzioni da prima serata televisiva. È una grande stupidaggine. Se un attore è bravo, è bravo. Se non lo è non lo è.
Ad esempio, Ken Loach nei suoi film usa attori che fanno soap opera. Dead Set, la meravigliosa serie horror-zombie che fu prodotta in Gran Bretagna è piena di attori che vengono dalla soap. Bryan Craston, il bravissimo protagonista della bellissima serie Breaking Bad era un membro del cast della soap opera della ABC Loving. A proposito di Centovetrtine, mi preme ricordare la recente scomparsa di uno dei registi cardine della soap, Fabrizio Portalupi. Un uomo e un regista che ricordo per la sua umanità e il suo modo di dirigere con un approccio sempre originale e cinematografico. L’intesa tra me e Fabrizio è sempre stata fortissima. Avrei tanto voluto poter tornare a lavorare insieme a lui.
Michele D’Anca, su cosa è maggiormente incentrata la tua vita, attualmente?
Tutto ciò di cui abbiamo parlato fa parte del passato, di una bellissima esperienza teatrale e televisiva che per il momento è conclusa. Continuo a dedicarmi alla recitazione, al doppiaggio, ma da qualche anno anche alla scrittura di sceneggiature. Ho finalmente trovato una sintesi tra la mia vocazione per l’arte drammatica e la passione per la scrittura. La sceneggiatura del mio cortometraggio “Secchione”, sul tema del bullismo, ha recentemente vinto un premio internazionale di letteratura italiana e, ultimamente, lo script “Tra le terre”, incentrato sul dramma dei migranti, ha vinto il bando di produzione cortometraggi del Nuovo IMAIE. Siamo in fase di preparazione delle riprese.
Questo corto sarà il mio debutto alla regia cinematografica. E pochi giorni fa ho saputo che un’altra mia sceneggiata “L’ultimo reporter” è fra le tre finaliste del RIFF AWARDS al Rome Indipendent Film Festival. A questo punto della mia carriera, non voglio più aspettare il momento opportuno ma voglio crearlo, come diceva G. B. Shaw. Ossia cerco di creare da me, tramite la scrittura, le storie e i personaggi che vorrei interpretare. Spero che ciò possa dare un nuovo sbocco al mio lavoro artistico, non necessariamente vincolato all’attesa di una chiamata dell’agente o di un casting.
Il lockdown, ‘recentemente vissuto’, ha creato non pochi problemi alla categoria. A tuo avviso, da qualche tempo, vi è stata una reale ripresa oppure si è ancora ‘in alto mare’?
Vero è che vi è stata una ripresa ma è anche vero che la professione dell’attore è sempre meno tutelata e in difficoltà. Proprio durante il lockdown è nato il RAAI – Registro Attrici Attori Italiani – per tutelare a livello lavorativo, sociale e pensionistico chi è realmente ‘attore’, ossia un professionista. I nostri problemi sono molteplici. Ad esempio, non siamo giuridicamente riconosciuti come categoria professionale, ci sono attori che non riescono a maturare neanche il minimo dei contributi per la pensione e attori che hanno un reddito medio annuo molto inferiore rispetto a un operaio mertalmeccanico. È un sistema del tutto sbagliato che, come Registro, di cui sono tra i soci fondatori, stiamo cercare di cambiare per tutelare chi vive realmente di questa professione.
A tal proposito Michele D’Anca, quali consigli senti di dare a tutti coloro che pensano di voler intraprendere tale esperienza legata all’ambito della recitazione?
L’unico consiglio che posso dare, oltre a studiare in una seria scuola di recitazione, è di portare avanti la propria passione con forza, coraggio e pazienza infinite, senza mai mollare anche quando tutto sembra remare contro. Occorre una ferrea determinazione interiore, visti gli innumerevoli ostacoli che bisognerà affrontare. Recitare è una professione bellissima ma molto difficile.