Abbiamo incontrato per voi Federico Asborno, scrittore che ci racconta il suo nuovo libro: “Le ragazze amano le preposizioni semplici”.
Benvenuto su La Gazzetta dello Spettacolo a Federico Asborno. Da pochi mesi è uscito il tuo primo libro: Le ragazze amano le preposizioni semplici. Come nasce l’idea?
Grazie del benvenuto! A dire il vero questa raccolta di racconti, Le ragazze amano le preposizioni semplici, non nasce da un ordinato e ordinatore progetto pregresso, semplicemente un giorno, mentre fuori nevicava, ho cominciato a scrivere il primo racconto (Aspettando Lennon) e per circa sei anni – con varie pause, ripensamenti, riscritture, momenti di sconforto e innumerevoli aperitivi passati a tediare l’uditorio coi miei dubbi irrisolvibili e i miei terrori – non ho fatto altro che scrivere nuovi testi che alla fine hanno quasi preteso di trovare una sistemazione definitiva e una pubblicazione eccellente come quella che devo al mio editore Edizioni Epoké.
Ne Le ragazze amano le preposizioni semplici ci troviamo di fronte dieci racconti e dieci protagonisti. A quale storia sei più affezionato?
Chiunque scriva sa che tra se stessi e i propri testi nascono e sopravvivono rapporti strani, molto simili a quelli che si hanno con le persone, con la differenza che dai racconti (non solo i propri) si deve esigere sempre e solo il meglio. Non so dire con precisione quale sia la storia a cui sono più affezionato: di sicuro quella più esigente nei confronti del mio tempo, che mi ha procurato più frustrazione e voglia di mandare tutto quanto al diavolo è stata proprio Aspettando Lennon (che è anche la più lunga). Quella che invece mi ha soddisfatto (e soddisfa) maggiormente è invece il noir Cioccolato fendente, che è venuto fuori molto in fretta, con pochi giorni di lavoro.
E in quale dei dieci protagonisti ti rispecchi?
Domanda difficile. Ognuno dei personaggi è una differente rifrazione di me, delle mie paure, dei miei traumi, delle mie speranze, punti di forza e manie. Di certo spero di non fare la fine di molti di loro: le protagoniste di Vestitino pulito e Piumino pesante, ad esempio , oppure Dante Fiorentino, Huracàn il gallo da combattimento e di Bea, protagonisti rispettivamente del già citato Cioccolato fendente, Il cantico del gallo da combattimento e Wireless. Visto il modo in cui sono fatto, la mia tensione alla nostalgia, all’insicurezza, alla ricerca continua e costante di una via di fuga, di una sospensione del senso di angoscia che mi opprime direi che il personaggio nel quale più mi rispecchio è la ragazza dei capelli d’argento, protagonista di Mozzicone, racconto di chiusura della raccolta. La ragazza è un’adolescente in crisi che trova la soluzione dei suoi problemi proprio all’interno della borsa che si trascina dietro: quaderni bianchi e una penna.
Quale è il messaggio che speri arrivi ai tuoi lettori?
I messaggi sono tanti, ma il tema alla base della raccolta è sostanzialmente uno: il senso di prigionia. Può essere una prigionia effettiva e tangibile (come quella del gallo o di Aspettando Lennon), si può essere prigionieri della propria mente (Charlie Parker), delle proprie ossessioni e paure (Cioccolato fendente, Wireless, Mozzicone), di un evento o di una condizione esistenziale drammatica (Vestitino pulito, Piumino pesante), ma la via d’uscita – per quanto mi riguarda – sta quasi sempre nella scrittura, nel trovarsi di fronte a un foglio bianco e sentirsi spaventosamente liberi. Vorrei che i miei lettori venissero trascinati dentro queste storie e assaporassero un po’ di quella libertà, un po’ di quel sollievo che ho provato io scrivendole.
Mi ha molto colpito il racconto Vestitino pulito. Quanto è stato difficile per te raccontare quella ragazza?
Raccontare partendo dal punto di vista femminile era una delle sfide alla base della raccolta. In passato ho sempre scritto racconti in prima persona, ma molto raramente adottavo il punto di vista di un personaggio femminile. Vestitino pulito è un po’ un azzardo a dire il vero: toccare un tasto delicato come quello dello stupro e farlo da uomo che si finge donna non è stato facile, ma una volta entrato nel mood devo dire che è scaturito fuori in modo naturale, senza troppe forzature e ripensamenti.
Nei tuoi ringraziamenti scrivi: “grazie alla moltitudine che ogni tanto mi permetto di raccontare”. Cosa rappresenta per te la scrittura?
Scrivere è sempre stato il mio personalissimo modo di gettare ponti tra me e il prossimo, di far diventare l’ “io” un “noi”, di stabilire legami, ma anche di affermarmi. Considero la scrittura il mio campo da gioco, l’unico nel quale mi senta realmente in grado di competere; è lo strumento attraverso il quale cerco di tradurre il mondo, ma allo stesso tempo anche di evadere dalle tante cose che non mi piacciono o mi fanno paura. Nella scrittura riverso anche la mia curiosità per il prossimo, per la moltitudine che hai citato, l’ammasso informe di persone che ogni giorno ci camminano vicine, ma che non riusciremo mai a comprendere fino in fondo. La scrittura dà l’occasione di cristallizzare, fermare il tempo e riflettere, fino ad approdare qualcosa di nuovo, una nuova idea e andare oltre.
E quanto è stata importante per te la tua famiglia nel tuo percorso di studi e di scrittura?
La pazienza dei miei genitori nel sopportare la versione liceale, capellona, apatica, pigra, indolente e un po’ lazzarona del Federico di oggi è roba da poema epico, o da supplizio di Sisifo. La mia famiglia è stata fondamentale, soprattutto nel fornirmi gli strumenti per scrivere, studiare e vivere la mia gioventù in totale libertà e perseguendo le mie passioni. Hanno interpretato alla perfezione il ruolo che spetta alla buona famiglia: una base solida da cui cominciare, un pilastro incrollabile che non cede, non un tetto che ingabbia e limita. Ricorderò sempre le parole di mio padre quando mi disse: “Scegli il tuo sentiero, impegnati, non mollare: sei libero di diventare ciò che vuoi… tranne che interista”.
Sei un insegnante di lettere, i tuoi alunni hanno letto il tuo libro? Quali sono stati i commenti che più ti hanno colpito?
Essendo ancora un supplente cambio frequentemente scuole, classi e (ovviamente) alunni, di conseguenza non sono riuscito a intercettare i feedback degli alunni passati, con mio grande rammarico. Posso però dire che il titolo della raccolta mi è stato involontariamente suggerito da un’ex alunna la quale era convinta (e ha pervicacemente sostenuto per un bel po’) che una preposizione semplice potesse bastare per dare corpo a una frase. È stata la sua ingenua ma adorabile insistenza a farmi notare che molti dei miei personaggi si comportavano in modo similare al suo: tentare sempre, costantemente di far funzionare le cose anche quando queste evidentemente non funzionano. Ci vuole coraggio anche a tenere duro di fronte all’evidenza di un errore, rimanere aggrappati a una bandiera anche quando tutto intorno il resto precipita. È una forma di coraggio anche questa, o quantomeno a me ha fatto venire voglia di raccontarla.
Nella tua biografia leggo che il tuo sogno è diventare il più grande scrittore di tutti i tempi ”con calma”, ma chi sono i tuoi scrittori e punti di riferimento?
Diciamo che i miei gusti oscillano molto tra autori classici e di genere, prevalentemente di provenienza anglo-americana (Kerouac, Steinbeck, King, Lovecraft, Poe, Fante, Palahniuk, Hornby, Tolkien, Carver), ma senza dimenticare giganti della letteratura italiana con i quali ho preso confidenza durante gli anni universitari. Tra essi cito Dante, Machiavelli, Manzoni, Calvino, Montale, Buzzati, Moravia, il contemporaneo Ammaniti e soprattutto Giacomo Leopardi, alle cui considerazioni sul rapporto uomo/società ho dedicato la mia tesi di laurea.
Non oso di certo accostarmi a nomi di questo calibro e quindi non mi lancerò nel solito elenco di qualità che gli scrittori emergenti presumono di aver attinto dalle loro auctoritates, dico soltanto che di loro amo soprattutto il ritmo musicale che riescono a imprimere alla loro prosa; lo sguardo cinico, disilluso, ironico, beffardo, ma anche commosso, ammirato e perennemente romantico che rivolgono all’Uomo e alla società; amo la capacità di molti di loro nel destreggiarsi tra quelle che gli stolti distinguono tra “letteratura alta” e “letteratura bassa”, perché mi hanno insegnato il precetto fondamentale che esistono solo “buona letteratura” e “cattiva letteratura”.
Il prossimo libro che scriverai?
Innanzitutto mi sto tenendo in esercizio scrivendo un racconto quotidiano sulla pagina Facebook a mio nome. È una sfida quotidiana che mi sono autoimposto per riuscire ogni giorno a trovare un’idea e svilupparla in meno di 24 ore, oltre a non abbandonare la forma breve che – per il momento – prediligo. Per quanto riguarda il futuro è ancora molto nebuloso: vorrei ovviamente affrontare la sfida del romanzo “impegnato”, anche se è questa una formula che non amo. Di sicuro vorrei superarmi, fare di meglio, dimostrare che i semi sono venuti sù bene e che ho innaffiato con attenzione il terreno. Se dovessi azzardare una risposta direi che novanta su cento sarà un romanzo, probabilmente sarà autobiografico, probabilmente sarà frivolo, dolorante, dal ritmo sfrenato, a tratti claudicante, incisivo e superficiale al contempo, elegante in superficie, ma dall’animo rozzo: una sonata di Chopin rifatta dai Black Sabbath. O forse mi sto inventando tutto quanto, come al solito.