La disfatta

La disfatta, gli ultimi giorni del bunker

Il 30 aprile 1945 a Berlino, asserragliato nel bunker costruito sotto il palazzo della Cancelleria, Adolf Hitler si suicida insieme ad Eva Braun appena sposata. Poco dopo Joseph Goebbels, ministro della propaganda e gauleiter della Capitale, insieme alla moglie Magda avvelena i suoi bambini e con lei anch’egli si toglie la vita. Sparsi qua e là per la metropoli in fiamme si danno volontariamente la morte capi politici e militari. Altri, come Hermann Goering, condannati a Norimberga all’impiccagione per crimini di guerra, si suicideranno in carcere.

La disfatta al Teatro dei Conciatori

Pochi epiloghi di foschi periodi della storia hanno tanto somigliato alla rappresentazione teatrale di una tragedia, immaginata e addirittura in qualche modo provata per giungere all’immagine scenica voluta.

La materia del racconto, benché calata nei fatti veri della storia, mi ha riportato alla crudeltà e alla violenza del dramma elisabettiano.
Ma il dramma non è rappresentato, è raccontato, rivissuto, puntigliosamente rievocato da una mente che è rimasta chiusa nella prigione di una follia lucida che le suggerisce parole quasi “indicibili”.

E’ anche vero che nessun comandante militare in nessun conflitto ha mai avuto la pazzesca idea di situare il proprio quartier generale in prima linea, la linea del fuoco, con il rischio di venir catturato o ucciso.
Il mio Fritz, il personaggio da me inventato per dar voce a questa quasi inspiegabile follia che riassume l’abbaglio di un intero popolo comincia a parlare osservando il mucchietto di terra che indica il luogo dove “tutto è avvenuto”, dove “la tragedia si è consumata”.

Se da un lato il Fuhrer, guidando da Berlino l’estrema campagna militare contro l’attacco sovietico, non agisce più secondo il filo razionale della logica, da un altro lato Fritz intende erigere intorno alla fine del nazismo un monumento tragico di esaltazione che tende a nascondere l’inferno di proporzioni bibliche dove l’intera Germania è sprofondata.
Fritz pensa che il nazismo non sarebbe dovuto durare dodici anni, ma mille, vive nella convinzione che una grande occasione sia andata perduta e tenta di spiegare il perché, ma inciampa in interminabili sillabe che si contraddicono e diventano un balbettio quasi musicale e funereo.

La vita di Fritz è tuttora egemonizzata dal simbolo della svastica e il suo futuro, nell’eternità della morte, è ancora contrassegnato dalla svastica nera stretta fra le mani come un rosario che conforti l’eterno riposo di un signore qualunque vissuto nell’amore della pace.

Nei giorni del bunker il Fuhrer, colui che aveva minacciato il mondo intero, appariva desolante e disperato. In un’atmosfera apocalittica, dominata dalla follia e sorretta dall’ira, fu disposto che fossero demolite tutte le infrastrutture necessarie per la continuazione della vita: stabilimenti industriali, ponti, fognature, per fare in modo che all’avversario rimanesse in mano un irreale deserto di civiltà.
Nella mente di Fritz regna un irreale deserto del senso ed ogni suo movimento del pensiero è dominato da un ipotetico “se ci avevano ordinato questo, una ragione ci sarà stata” oppure “a noi piccoli, a noi deboli non è e non era permesso di addentrarci nelle immense e irraggiungibili ragioni della storia”.

Forse questi sono i meccanismi che ancora guidano le ideologie che si ispirano alla filosofia nazista e che forniscono carne e sangue agli attuali movimenti neonazisti che sempre più pericolosamente camminano nelle strade dell’Europa di oggi con nomi spesso contrastanti con le immagini evocate dai loro stessi proclami.
Qualche sprazzo di assurda poesia si affaccia nel monologare di Fritz e diventa canto, una paurosa preghiera al contrario che ci ammonisce e ci tiene ben svegli a vigilare perché non si passi il limite.
Per tenere la follia sotto controllo. Perché la follia resti tale e non si nasconda sotto un costume di mendace innocuità.

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