Correva l’anno 1969. L’Apollo 11, nella notte del 20 luglio, approdò su quel misterioso satellite naturale (la Luna, l’unico vicino al pianeta Terra) che, nell’immaginario umano – da secoli – aveva rappresentato il centro di antiche divinità lunari e, nella letteratura, era stato meta di viaggi fantastici e futuristici alla scoperta di forme di vita improbabili ma non impossibili.
L’uomo, con un salto immortale, scavalcò il filo spinato del cielo, divenendo così – per certi versi – il peggior nemico degli angeli, degli Dei e degli uccelli.
Quindi, non più sorvolante ma volante, nel pieno di una Guerra silenziosa in perfetta continuità con le due precedenti, conobbe fisicamente e materialmente il cosmo.
Scorreva, quell’anno, Something.
Un capolavoro scritto da Harrison, componente di una band straordinaria ma giunta al Miglio Verde, in odore di scioglimento che, volente o nolente, aveva contribuito a raccontare e, certamente, a cambiare quel pezzo di Storia. Così il piccolo e timido George, figlio di una famiglia proletaria, parlava – nella canzone – di bellezza, di dubbi, di paure che, forse inconsciamente, erano il ricettore sensibile e ansiogeno di un tempo destinato ad essere archiviato ed a lasciare il passo a quegli anni Settanta che non sarebbero stati meno pesanti e floridi dei due decenni precedenti.
Camminava, quell’anno, l’Europa.
Un chansonnier francese, di origine greca, si descriveva come un meteco – alla ricerca del suo prosseneta – che, “con quella faccia da straniero” (così tradusse il bravo Bruno Lauzi), come un malandrino, ebreo errante, pastore greco, immerso in un nomadismo esistenziale (assai lontano daL’Étrangerdi Dumas) si avvicendava nell’Italia di Battisti e del cosiddetto “autunno caldo”, preludio agli anni di piombo.
Le lune d’autore, intrise di desiderio di cambiamento, grandi ideali di pace, di tormentata premonizione che l’era solida si smembrasse e, come profetizzato da Pasolini, si omologasse in una fluidità impersonale, si moltiplicavano. E, insieme a quei satelliti immaginati, i loro esploratori ebbri di speranza.
Il pionierismo musicale del primo novecento, aveva così incontrato sulla sua strada tanti prodi metechi e, dopo due tragici confronti bellici mondiali, si beava di nuove aspettative per una società migliore, reinventandosi generi e stili nuovi.
Il ’69, speculare, rovesciato e circolare (come il simbolo del segno zodiacale del Cancro, del quale il pianeta dominante è – guarda caso – proprio la luna…) era finito.
In Italia si prospettava un nuovo anno (e decennio) ZERO, dal quale ripartire feriti da nuova crisi, da preoccupante disoccupazione e da un boom economico che, pur avendo allietato la classe media per qualche annetto, aveva arricchito e fatto felice soprattutto i grandi speculatori.
Dall’altra parte del mondo, se ne andavano a fanculo l’AMERICAN DREAM, WOODSTOCK e DALLAS che, a colpi di pistola, aveva visto – tra l’altro – un grande sogno essere assassinato e, con lui, se ne erano andati pure il fratello minore e il pastore protestante di Atlanta che si era battuto per i diritti civili degli afro-americani nel nuovo continente.
Le lunazioni artistiche però proseguirono, negli anni a venire, ad iniziare dall’uso di musica concreta e concettuale e di testi filosofici (The Dark Side of the Moon, Pink Floyd), fino a sfoderare eccellenti quadretti popular (sempre in vinile formato luna nera, s’intende…) anche nel nostro paesello: pensiamo, per citarne alcune, a canzoni “leggere” comeE la luna bussò, Luna, Non voglio mica la luna….
Leggere ma da leggere (voce del verbo ), potremmo dire. La luna che bussa alle porte del cielo (della potente Loredana) e riceve lo sfratto, poi si cala in mezzo ai marciapiedi, è in realtà un satellite-donna (una fragile divinità lunare?) che viene rifiutata nonostante sia destinata ad offrire amore; Gianni Togni, un songwriter romantico, in relazione alla sua canzoneLunapare abbia affermato che una parte del testo era stata “raccolta” da un homeless che spesso incontrava alla stazione della metropolitana: ma è anche una luna un po’ leopardiana? (Dall’oblò, come da una fessura?); Fiordaliso invece, con un brano scritto anche da Zucchero (a quel tempo Adelmo), sfidò Sanremo, rocamente, per ricondurre la luna al suo ruolo antico e tradizionale, ovvero di terra di Dei e Misteri imperscrutabili, rivendicando – con immediatezza e semplicità – le priorità del vivere quotidiano.
Tante, tantissime le citazioni e gli omaggi al satellite luminoso che parrebbe rappresentare l’Universo femminile, in tutta la sua quantità e magnificenza.
Gli anni Ottanta in verità hanno spazzato via (con calma, con approccio sistematico) le musicassette, i vinili, le radio libere, i negozi di dischi e le trasmissioni musicali di “approfondimento massificato”, cedendo il bastone digitale al CD e, ben presto, al Web, ampliando così il divario tra massa e nicchia.
Sì, anche il CD è rotondo, è lunare. Ma si è già eclissato, o comunque è lì lì per farlo.
La luna, invece, quella vera, quella del 1969, quella del prossimo allunaggio, quella che i greci e i romani ammiravano con stupore e che Galilei studiò con fervore dal suo telescopio, è ancora lì.
Non immobile, ma ben visibile. Pronta ad essere usata, come metafora e come Pianeta, se richiesto da qualche poeta o da qualche astronauta.
Qui, potrei chiudere. Ma mi permetto un momento di protagonismo non richiesto, con questa riflessione.
Bertoli, il Pierangelo dei cantautori, nel 1991 sbarcò a Sanremo con la sua astronave a due ruote e la voce (come narra mamma Bruna Pataccini) degli Dei: sfracellò il sistema per qualche minuto, sovvertendo le logiche malate di una società troppo mediatica e poco umana, scatenando un applauso in mondovisione insospettabile e imprevisto. Bene, fin qui è Storia.
Quello che mi piace però ricordare è che quella notte, al Festival della canzone italiana, non fu soltanto l’amato cantautore emiliano coi suoi colleghi sardi ad essere protagonista: il vero Oscar, alla carriera, andò alla luna, metafora tanto cara alle minoranze, ai disimpari e ai guerrieri romantici.
La luna-canzone non vinse premi, ma conquistò – tra presentatori inquieti e un pubblico goloso – la statuetta prestigiosa della “consacrazione ufficiale”, quello – appunto – che io amo definire l’OSCAR della credibilità popolare (e non populista).
Con Bertoli, quel febbraio 1991 la luna degli antenati spuntò dal monte, rendendosi facilmente raggiungibile dagli sguardi di quella gente che, tra indifferenza ed abitudine, forse aveva perso il valore portante della speranza.
Mi capita di sentirla, di vederla in tv, di cantarla (seppur malamente come allora). La canzone, intendo.
Ma non solo. Dietro la ballata, tra modulazioni etniche e contaminazioni celtiche, mi pare di intravedere Gagarin e Amstrong stringersi la mano e dirsi OK-KOROSHO (circa… va bene, insomma).
Mi piace addormentarmi con questa immagine tra fantasia e realtà (citando un verso della indimenticata canzone di Bertoli/Tazenda)cercando la luna… cercando.