Soggettista, sceneggiatore e regista, Marco Tullio Barboni rappresenta la terza generazione di una famiglia di “cinematografari”, dopo lo zio Leonida, direttore della fotografia prediletto da Anna Magnani, e il padre Enzo, creatore saga con Terence Hill e Bud Spencer.
Al suo attivo annovera oltre cinquanta film, cortometraggi e tv-movie e negli ultimi anni è diventato anche un apprezzato scrittore vincitore di numerosi premi letterari.
Tra i suoi libri “Matusalemme Kid. Alla ricerca di un cuore bambino”»” (Edizioni Paguro), un romanzo autopsicanalitico dedicato al padre Enzo, di cui lo luglio scorso si è celebrato il centenario dalla nascita, e a Bud Spencer.
Per prima cosa benvenuto su La Gazzetta dello Spettacolo. Marco Tullio Barboni e il 2022: è stato un anno importante questo per lei e la sua famiglia. Vogliamo spiegarne brevemente i motivi? Cosa si è festeggiato di particolare?
Quest’anno si è celebrato il centenario della nascita di mio padre, Enzo Barboni in arte E. B. Clucher. Credo che lui sarebbe stato il primo a sorprendersi della vastità dell’affetto con il quale è stato ricordato. A prescindere dagli amici e dai compagni di lavoro, la frase ricorrente che mi sono sentito rivolgere da coloro che, a vario titolo, si sono trovati coinvolti nelle diverse celebrazioni che si sono svolte in mezza Italia è stata: “Io ci sono cresciuto con i film di tuo padre!” Ed è stata un’affermazione sempre pronunciata con il sorriso sulle labbra, intrisa di divertimento e di una sottile nostalgia. La carriera di mio padre ha percorso cinquant’anni di cinema italiano e internazionale, partendo dalla gavetta fino ad arrivare alla regia di “Lo chiamavano Trinità” e di altri formidabili successi. Ebbene, sono sicuro che prima di ogni altro riconoscimento, ciò che lo avrebbe reso felice sarebbe stata proprio questa diffusa simpatia che ho sentito istintivamente manifestarsi nei suoi riguardi, quasi una forma di gratitudine per tutta la leggerezza e il buonumore che è stato capace di dispensare.
Dal punto di vista letterario il 2022 ha visto la pubblicazione di un volume particolare. Ce ne parla?
“…e lo chiamerai destino” è stato il mio libro. Dato alle stampe sei anni fa, ha raccolto, con mia stessa sorpresa, numerosi riconoscimenti. Trarne un adattamento teatrale è stato quasi consequenziale alla struttura del suo impianto narrativo. Il Primo Premio conseguito in occasione della XIV Edizione del Concorso Europeo per il Teatro e la Drammaturgia intitolato alla memoria di Ernesto Calindri ha confortato questa scelta e insieme mi ha suggerito di corredare una seconda edizione del libro con il testo del suo adattamento teatrale: un’operazione editoriale originale ma sopratutto capace di fornire al lettore una duplice chiave di lettura della vicenda.
Siamo in epoca Covid e lei lo ha avuto due volte. La prima soprattutto è stata un’esperienza molto spiacevole. Cosa le è rimasto addosso di questo periodo?
L’espressione “molto spiacevole” è simpaticamente british e decisamente riduttiva per descrivere una condizione nella quale si percepisce la propria esistenza appesa a qualcosa di insondabile, all’attesa di un’evoluzione o di un’involuzione sulle quali, al di là di alcuni interventi di routine, nessuno sembra poter intervenire in modo risolutivo. Ho trascorso quattro interminabili giorni nel Pronto Soccorso Covid dell’Ospedale San Camillo di Roma, algido e spietato luogo di smistamento verso i reparti o verso la terapia intensiva. Io ho avuto in sorte di essere infine avviato verso i primi, altri sono stati mandati a giocarsi le proprie carte nella seconda. E, come sappiamo, non tutti hanno concluso con successo la propria partita.
Quanto a ciò che mi è rimasto addosso di quel periodo, al di là di alcuni strascichi a livello fisico che solo ora, dopo oltre un anno, sembrano sul punto di esaurirsi, mi è rimasto addosso, mi si perdoni l’enfasi, un rinnovato senso della caducità della condizione umana. Una condizione nella quale basta un niente perché le prospettive si ribaltino, le certezze svaniscano e gli arroganti diventino pavidi.
Da intellettuale come commenta i tempi storici che stiano vivendo? Cosa manca alla nostra società e ai nostri giovani? Dove andremo a finire?
Ho compiuto settant’anni lo scorso agosto e di guerra ne avevo solo letto o sentito parlare. In primo luogo da mio padre, uno dei fortunati reduci della campagna di Russia dell’ultimo conflitto che ha devastato l’Europa. Dunque più che essermi abituato alla pace, l’ho considerata come data per acquisita in questo spicchio di pianeta, frutto dell’evoluzione, di un’intelligenza che attinge dall’esperienza. Ecco, con tutta evidenza, quell’intelligenza molto semplicemente non c’è. Soccombe di fronte alla manipolazione, alla regressione dei sentimenti, alla perdita della memoria, al delirio di onnipotenza. E di tutto ciò i giovani sono gli unici non colpevoli, le vittime. Senza che di questo alcun colpevole se ne vergogni.
Quanto alla domanda su dove andremo a finire temo di non poter rispondere altro che dove ci meritiamo di andare.
Marco Tullio Barboni ci faccia un suo bilancio di fine anno, con le consuete promesse per il nuovo anno. Sia nella professione che a livello privato.
Sono abitante di questo pianeta nonché cittadino europeo in servizio permanente effettivo e dunque, con una guerra alle porte, un bilancio non può essere rassicurante. Quanto a promesse non mi piace farne e non solo perché, com’è noto, di buone intenzioni è lastricata la strada per l’inferno. Preferisco, più genericamente, cercare di mantenere un atteggiamento positivo e propositivo nonchè di ricordarmi che, come diceva Chaplin, un giorno senza un sorriso è un giorno perso. Ho sperimentato che quando ci riesco sia la vita privata che quella professionale ne risentono positivamente.