La commedia dell’autore catalano Jordi Galceran racconta la crudeltà che spesso si manifesta nei rapporti di lavoro.
Quanto può essere crudele un ambiente lavorativo? Fino a che punto possiamo permettere alle aziende di applicare gerarchie ingiuste e sottoporci a prove umilianti, pur di ottenere una posizione socialmente rispettata? E se rappresentato a teatro, fin dove arriviamo a crederlo verosimile? È su questi temi, quanto mai attuali che si sviluppa Il metodo.
In una sala riunioni asettica, si trovano, per l’ultimo colloquio “congiunto”, quattro candidati ad un incarico di manager per una importante multinazionale. I quattro personaggi si rivelano subito persone ciniche, disposte a tutto pur di ottenere l’unica cosa che per loro davvero conta: il solo posto disponibile.
In una busta chiusa arrivano delle prove e qui comincia il gioco, il thriller.
La drammaturgia è scorrevole e permette un vivo coinvolgimento del pubblico che si trova continuamente a dover valutare ciò a cui assiste: qual è la reale personalità dei candidati? Dov’è la verità e dove la menzogna? Lo spettacolo ha il grande pregio di riprodurre in scena ambienti e situazioni comuni a tutti, che viviamo ripetutamente nella quotidianità e ritroviamo sul palco con tutta un’altra suspense.
Un cinismo maieutico, che riesce a far risultare chiara, ma mai banale, la possibilità di rispondere “no” alle ingiustizie.
Tutto questo nella commedia, appunto, di Jordi Galceran nella versione italiana di Pino Tierno, che andrà in scena presso la Sala Umberto a Roma dal 29 settembre al 18 ottobre 2015, per la regia, di Lorenzo Lavia e con Antonello Fassari, Giorgio Pasotti, Gigio Alberto e Fiorella Rubino.
Note di regia
Il Metodo Gronholm, questo è il titolo originale, anche se ho preferito chiamarlo semplicemente il Metodo, non solo per la sua immediatezza nella singola parola, ma anche per cercare di astrarre il più possibile ogni riferimento geografico o alla persona, come se questo “Metodo” di giudizio che servirà per scegliere uno dei quattro personaggi per un impiego, fosse anche un “Metodo” archetipo della società.
Una società che cerca sempre di sapere chi siamo, per poterci meglio controllare, una società pronta ad elevarci, per poi rigettarci verso il fondo. Uomini costretti ad umiliarsi per poter far parte della comunità globale in cui viviamo tutti quanti noi.
Nella commedia, viene usato il lavoro, come fondamento della nostra società, con tutti i suoi difetti di sessismo, razzismo, odio, menzogna, dove ci si deve velare per potersi svelare e una ipotetica multinazionale che qui diventa un simbolo religioso ed unico, che poi è in fondo il nostro fondamento culturale, quello giudaico cristiano che ci mette al di sotto di ciò che non vediamo.
Garcelan la chiama Dekia questa fantomatica multinazionale svedese, ed è chiaro che il gioco di parole con L’Ikea non è casuale, perché viene presa come la multinazionale assoluta, simbolo unico della nostra collettività. Ogni casa ha il suo crocifisso o l’immagine di Maometto o una stella di David o anche nessun simbolo religioso, ma è certo che la cosa che gli accomuna che in tutte queste case in qualunque parte del mondo, anche se sono in guerra tra loro, hanno almeno un oggetto dell’Ikea o “Dekia” in questo caso per noi.
Ed ecco perché ho scelto di far svolgere la storia in un luogo non luogo, che possa essere una stanza o il mondo intero e dove l’unico contatto con l’esterno, ovvero quello che non vediamo e non sentiamo, come tutte le cose di cui abbiamo fede o temiamo, viene dall’alto. Un luogo del profondo dove gli unici colori che esistono, arrivano dalle cose che noi usiamo ed indossiamo e consumiamo.
A parte il colore di un cielo che ogni tanto ci ricorda cosa siamo veramente.