Questo film, uscito nell’agosto di quest’anno, parte dalla vicenda realmente vissuta da Benjamin Avila, qui nella duplice veste di sceneggiatore e regista; sua, infatti, è l’Infanzia Clandestina che il piccolo Juan si trova a vivere per scelta dei suoi genitori, i quali, dopo la caduta di Juan Péron, scappano dall’Argentina per trovare rifugio a Cuba. Torneranno nel loro paese nel 1979, quando, a loro insindacabile giudizio, i tempi sono maturi per organizzare la resistenza e creare le condizioni affinché Péron torni al potere.
Esso si presenta, fin dalle prime inquadrature, come un romanzo di formazione in cui la Storia viene letta con gli occhi del bambino, il quale assiste all’attentato subìto dal padre e lo memorizza come un bambino può fare: attraverso le immagini di un fumetto, per mitigare la paura del sangue che segna l’asfalto della strada sotto casa. Lo sconcerto, la paura, il senso di precarietà non lo abbandonano più, neanche nella sua nuova vita, in cui deve cambiare nome, cognome e data del suo compleanno, come recita il suo nuovo passaporto.E tornano le immagini cinematografiche, la realtà nuova in cui lui ora è Ernesto, in onore del Che e degli anni felici vissuti nell’isola di Fidel, anni talmente sereni che i suoi genitori decidono di avere un altro bambino, una femminuccia che non esitano ad affidare alle cure di questo ragazzino di 11 anni che impara a viaggiare da solo, a nascondersi, a rispondere in maniera convincente ai posti di blocco e alle frontiere. In mezzo alla guerriglia che i suoi genitori e il gruppo dei militanti Montoneros stanno organizzando, l’unica figura veramente formativa è quella dello Zio Beto che sa mettersi al suo livello e spiegargli la Vita che un ragazzino ha diritto di fare: la scuola, gli amici, le feste, il primo amore. La nonna materna, figura di perenne contrasto perchè portatrice di valori diversi rispetto alla coppia genitoriale, chiede ripetutamente che le vengano affidati i bambini, senza ottenere altro risultato che l’ennesimo scontro con la figlia, pure tanto amata.
E’ da lei che Juan-Ernesto verrà accolto, quando i Montoneros vengono scoperti, catturati, uccisi, non dopo essere passato per l’orrore di un interrogatorio così crudele che non può non riportare alla mente dello spettatore le immagini che tutte le televisioni mondiali avrebbero trasmesso di lì a qualche anno: le madri di Plaza de Mayo che protestano per sapere dove sono i loro figli. Anche questo tema così doloroso viene sfiorato con grazia, con tocco leggero perché non si aggiunga altra sofferenza al male: Ernesto, che ormai è tornato Juan, bussa a casa di sua nonna senza la piccola Vicky, probabilmente adottata da qualche ufficiale dell’Esercito, magari dall’uomo che ha dato l’ordine di irrompere in casa di Horacio e Charo o da chi ha firmato il permesso di svolgere l’irruzione, effettuata più come una mattanza che come un’operazione di Polizia.
Una menzione speciale, infine, per i titoli di coda, dove lo spettatore più attento potrà notare che chi ha curato la musica -che accompagna questa pellicola- non è la stessa figura professionale di colui che ne ha curato il suono, dove per suono si intende: i rami del campeggio che scricchiolano sotto i piedi di due ragazzini alla loro prima cotta, il rumore assordante delle sirene che si avvicinano alla casa, i latrati dei cani durante la perquisizione. Uno di quegli strumenti che il Cinema mette a disposizione e che pochi riescono ad usare in maniera così significativa, come avviene in questo film.
Al pubblico sovrano spetta l’eventuale applauso per la dedica alla madre del regista, realtà che irrompe senza inutili grancasse, con dignità e con celato orgoglio, per l’appunto nei titoli di coda.