Si è inaugurata giovedì 17 settembre la mostra di Monica Marioni Fame a cura di Igor Zanti promosso dall’Assessorato alla Cultura e Turismo del Comune di Napoli presso il PAN – Palazzo delle Arti di Napoli. La mostra la si potrà visitare fino al 27 settembre 2015.
Il progetto giungerà a Napoli dopo l’allestimento milanese di Museo Fondazione Luciana Matalon, previsto per agosto. Per la sua natura itinerante e site specific FAME! sarà presentato nella città partenopea con un allestimento profondamente mutato, al punto da risultare inedito. Fame è il frutto di un percorso anzitutto autobiografico, è l’articolare in forme universali un bisogno personale di Monica Marioni, frutto della profonda esperienza di una fame creativa così profonda e strutturale da richiedere dissimulazione. Come in chi mastichi qualcosa che permetta di ingannare la fame, tale inquietudine viene parzialmente acquietata nel creare un immaginario altro da quello dell’io reale. L’affabulazione narrativa diventa nell’artista un inventare che porta avanti la fabula a partire da una cronica assenza di sazietà e di cibo. Fame! è un’esposizione unica che nasce dalla capacità di Monica Marioni di mettersi in gioco sorprendendo, innovando e sperimentando. Fame evidenzia il lato oscuro del nutrirsi nel pianeta, riportando l’attenzione sui disturbi e le nevrosi legate al cibo e per estensione ad ogni altro tipo di appetito che sperimentiamo quotidianamente, per il successo, il denaro, il sesso e così via. Fame nasce dalla conoscenza diretta dell’artista di alcune di queste nevrosi: di cosa ho fame? è la semplice domanda da porsi; di che cosa si ha davvero fame? Qual è il vero bisogno? Nessuno mangia per soddisfare semplicemente la fame biologica, spesso si assume cibo in maniera incontrollata indipendentemente dal senso di fame e da quello di sazietà. Come dire, mescoliamo emozioni e cibo, e usiamo quest’ultimo per far fronte alle emozioni. Può essere complicato guardare alle nostre emozioni per quelle che sono (tristezza, paura, contrarietà, delusione, rabbia) e riuscire ad esprimerle, ma non essendo chiari e onesti verso sé stessi si rischia di innescare circoli viziosi. Questa “psicoplasticità”, ovvero l’esprimere la stessa sofferenza psichica con comportamenti solo apparentemente diversi, ma che riconoscono la stessa dinamica di fondo, si articola negli appetiti più diversi, fame di giustizia, d’amore, di sesso, di successo. Perché tanta gente cerca disperatamente il cosiddetto “posto al sole”? Perché cercare di diventare “qualcuno”? Ricerca legittima, se compiuta onestamente e coi propri meriti, ma non si fa nulla senza una motivazione, conscia o inconscia che sia. Ricercare certi ruoli di “prestigio” può far sentire appagati, perché si ricevono quegli apprezzamenti tanto cercati e soprattutto perché si è al centro dell’attenzione: se poi in realtà gli apprezzamenti siano finti e dovuti al ruolo e non alla persona, alla sua identità profonda, poco importa. Si continua così, a cercare “carezze” nella vita nei modi in cui esse sono state vissute nell’infanzia. Quante persone sono disposte a tutto per un minimo di riconoscimento? Autori come Franz Kafka e Knut Hamsun hanno creato personaggi in cui la fame o il digiuno si autorappresentano nel momento stesso in cui soddisfano o tendono a soddisfare un bisogno di espressione: la fame è insieme oggetto e soggetto di rappresentazione, ossia è ciò che viene messo in scena e ciò che permette di allestire quella stessa scena, di rappresentare. Come ci dice Igor Zanti : “Se pensiamo all’essere umano nella sua sfera più squisitamente animale, la fame e la sete risultano, senza dubbio, i due bisogni fondamentali, quelli la cui soddisfazione affonda nelle necessità primordiali e garantisce la sopravvivenza. Proprio per questo motivo, l’atto del bere e del mangiare ha assunto in tutte le culture, a livello ancestrale, un profondo valore simbolico. Non dimentichiamoci, infatti, di come il neonato, attraverso la suzione – in quella che da Freud veniva definita la fase orale – assume sia il cibo, sia una sorta di imprinting; così come in tutte le specie animali la madre, femmina dominante, caccia per sfamare i figli, assicurando loro la sopravvivenza. L’aspetto metaforico e simbolico del mangiare, con la conseguente privazione del cibo, è alla base di tutte le religioni: si mangia per celebrare le divinità, che in moltissimi casi, fin dalle epoche più remote, ricevevano vivande come offerte sacrificali; si mangia per celebrare i morti o in alcune culture – come quella degli indios Yanomani nella foresta amazzonica – si mangiano ritualmente le ceneri dei morti impastate con polpa di banana. Il cibo ed il mangiare sono al centro di qualsiasi tipo di celebrazione, sia religiosa sia profana. Tutta la simbologia della cultura cristiana si basa sull’atto del mangiare, basti pensare alla celebrazione eucaristica che riprende l’Ultima Cena durante la quale si mangia e ci si nutre del corpo di Cristo. Ma già prima, nella Bibbia, l’atto di mangiare e la privazione del cibo assumono valore metaforico. Il profeta Isaia, a questo proposito, nell’Antico Testamento scriveva: “Se offrirai il pane all’affamato, se sazierai chi è digiuno, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio. Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa; sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono” Ma proprio questo uso metaforico del mangiare, di questa azione così fondamentale per tutti noi, ha portato anche a utilizzare il termine “fame” nel senso più lato possibile. Si parla di fame d’amore, fame di successo, fame chimica, di fame o appetito sessuale. La fame rappresenta il desiderio non soddisfatto, il bisogno non colmato, e l’atto stesso del mangiare diventa atto apotropaico e compensativo delle mancanze, il cibo è metafora psicologica, simbolica. I disturbi dell’alimentazione, così diffusi nell’epoca contemporanea, sono in buona parte collegati o compensativi di mancanze e di inosddisfazioni. Sono lo specchio del disagio del sé, della distanza tra l’essere e il sentire, o meglio il , sentirsi; sono il solco che si forma nella frattura dell’autopercezione. La fame è anche una sensazione piena di rimandi mistici: a questo proposito, in un saggio dedicato al rapporto tra ascesi ed anoressia, Paolo Santomaso, docente di psichiatria all’università di Padova, afferma: “Esistono suggestive coincidenze tra il comportamento di alcune sante e mistiche del passato e quello delle moderne adolescenti anoressiche: il digiuno e il dimagrimento estremo, la propensione all’ascetismo e al sacrificio, la ricerca della privazione, la negazione e la frustrazione dei bisogni del corpo, il controllo degli istinti, le distorsioni percettive indotte dal digiuno, l’inclinazione verso atti di autopunizione corporea, una qualche forma di isolamento sociale, l’aspirazione all’immortalità, il rapporto con un’immagine ideale, la vicinanza e la contiguità con la morte” Ed ancora: “Nel corso della storia, prima che la medicina si impossessasse del digiuno con la diagnosi di anoressia, si possono rintracciare le articolate vicende della rappresentazione sociale e culturale di coloro che si astengono dal cibo; tale rappresentazione è determinata dal diverso spirito del tempo che ha attribuito a chi digiuna ruoli legati al mondo della spiritualità o della divinazione, dell’eccezionale o del diabolico, prima che del patologico. Nel mondo del sacro l’astinenza dal cibo è stata intesa sia come pratica purificatrice che libera dai condizionamenti del corpo e avvicina a Dio, sia come sospettoso segno di onnipotenza e quindi di un intervento di forze demoniache. L’atteggiamento che l’anoressica mette in atto nei confronti del cibo e nei confronti del corpo rimanda agli antichi percorsi dell’ascesi e dell’astinenza e, contemporaneamente, a quei comportamenti inquietanti e inspiegabili che sono stati intesi come segno patognomonico della presenza del demonio e hanno contribuito a costruire una sorta di semeiotica della possessione diabolica, singolarmente parallela ad una semeiotica della santità. Con il passaggio del digiuno all’interno del dominio della medicina si assiste alla trasformazione delle innumerevoli ed eterogenee storie di astinenza dal cibo nei “casi clinici” registrati dalle cartelle mediche”. Tutto questo, e forse molto altro, sembra confluire nel progetto “Fame” ideato dall’artista Monica Marioni. Non possiamo in questo caso parlare semplicemente di una mostra, ma di un progetto composito che si svolge in un arco di tempo piuttosto lungo e tocca luoghi e spazi diversi. La Fame di cui parla Monica è una fame che viene declinata in tutte le sue accezioni fisiche e psicologiche, è uno stato perenne di insoddisfazione, di ricerca, di caccia, di inseguimento di un bisogno di vita e della sua intrinseca negazione. Al centro di tutto rimane l’io, o forse, in accezione non negativa il super-io dell’artista che conduce il progetto in una sorta di narrazione dove l’aspetto autobiografico è sempre presente. Monica Marioni ha sperimentato le fame – o meglio le fami – su se stessa, e le racconta utilizzando un linguaggio simbolico pieno di rimandi alla cultura contemporanea, ma anche a esperienze che provengono da un passato più recente. Punto cardine del progetto è l’installazione di circa 200 bilance bianche e nere disposte a terra a formare una sorta di grande scacchiera che il visitatore deve necessariamente attraversare per proseguire il percorso. Le bilance, durante il passaggio, restituiscono pesi sempre differenti, mai uguali a se stessi, pesi che variano per l’inclinazione o per l’incidenza sulla loro superficie. L’indefinizione del peso sia fa qui metafora stessa dell’indefinizione dell’io. Queste bilance sono però anche palcoscenico, spazio performativo per una figura umana dalle forme rotonde, abbondanti, di una bellezza antica che rimanda alle Veneri ed alle divinità di Rubens, lontana anni luce dai parametri estetici della bellezza anoressizzata tipica dei nostri giorni; figura che insiste, con il suo peso fisico, su questo palcoscenico, lasciando un continua testimonianza della sua presenza.“Peso e quindi sono”, si potrebbe dire, parafrasando il “cogito ergo sum” di cartesiana memoria, come se il mio peso fisico fosse indice della mia realtà come soggetto. Non è più quindi il pensiero che dà autocoscienza, bensì la ponderalità, che per uno scherzo del destino nella società contemporanea ci fa essere proporzionalmente “di più” tanto inferiore è il nostro peso. Perché non si può pesare troppo in questa società, perché proprio come nella ricerca ascetica, o nel misticismo, l’allontanamento fisico e non solo rituale dal cibo, la privazione, il controllo del bisogno ancestrale, la fame per l’appunto, portano ad una sorta di superomismo che trasforma la nietzschiana volontà di potenza in una forma di controllo su se stessi, vedendo l’istinto non tanto in una dimensione morale, quanto in quella più meramente fisica e più squisitamente intellettuale. T”utto questo denota un male, un male dell’anima che, secondo la bellissima pellicola di Alejandro González Iñárritu ispirata alle teorie del medico statunitense Duncan MacDougall, pesa solo 21 grammi. La fame di cibo sublima la fame dell’anima, che è sempre e comunque generatrice di tormenti. L’anima non ingrassa, è un organismo parassita che delega al corpo, alla sua rovina ed al suo decadimento, di sopportare il peso dei propri tormenti. E ancora i ritratti, sorta di wildiani feticci alla Dorian Gray, nel progetto di Monica Marioni divengono il medium utilizzato dall’artista per raccontare le sofferenza di un’anima che cannibalizza il corpo per saziare le sue fami. Ritratti indefiniti, scratchati, dove la bocca è a tratti ipertrofica, simbolico mezzo per soddisfare appetiti di ogni genere, perché tutti gli appetiti, anche i più deteriori, si soddisfano attraverso la bocca. La galleria di personaggi femminili, dove l’uso della tecnica mista, nel senso più letterale del termine, diviene evidente, si dipana in una serie di immagini drammatiche, dove corpi bellissimi e sensuali vengono straziati attraverso una texture pittorica di sapore neo espressionista, che ricorda molto da vicino tanto la produzione del Neue Wilden di Baselitz, quanto le deformità visionarie di Bacon. Ma Monica Marioni va oltre, in una sorta di accumulo liturgico di elementi e di immagini, ponendo a corollario di tutto una selezione di scatti e composizioni fotografiche, dove corpi ibridati, che non avrebbero sfigurato nel catalogo di Post Human – la celeberrima mostra ospitata nel Castello di Rivoli più di vent’anni fa – divengono una sorta di narrazione autobiografica che riassume il mostrarsi dell’artista nella sua quotidianità pubblica mediata dalla sua presenza sui social network, una rappresentazione del suo mendace io virtuale. Se nello spazio della mostra vi capiterà di vedere girare persone che indossano la maglietta con l’ironica scritta “Who the fuck is Monica Marioni”- tradotto letteralmente “Chi cazzo è Monica Marioni” – forse, dopo aver terminato il percorso espositivo, saprete rispondere a questo quesito, ma forse, in maniera molto più sottile, avrete intuito che le nostre fami non sono nient’altro che l’implicita affermazione dell’insoddisfazione e delle proiezioni del nostro io più intimo, ma anche, al tempo stesso, uno dei motori della nostra esistenza
Stay hungry, Stay foolish”.
Monica Marioni torna a Napoli a nove anni di distanza dal suo debutto espositivo avvenuto proprio nella città partenopea, nell’ambito di una collettiva allestita presso palazzo Crispi. Da allora ha esposto con continuità in Italia ed all’estero, lavorando con nomi quali Vittorio Sgarbi, Oliver Orest Tschirky, Ivan Quaroni. In ogni sua forma, l’attenzione artistica di Marioni è sempre concentrata sulla figura umana, che rappresenta con una vasta e varia gamma espressiva: nudi asciutti e taglienti; donne intense, altere, sicure di se; ritratti ed autoritratti di un profondo spessore psicologico; scene quotidiane rese surreali che chiamano l’osservatore ad assumere quasi una posizione di interprete psicoanalitico.