The bling ring: il film dell’assenza

Uscito nelle sale americane nel giugno del 2013, il film, ispirato ad una vicenda realmente accaduta, lega il suo nome alla fama di Sofia Carmina Coppola, figlia del Francis Ford che ha girato “Il padrino”; il genere è quello della commedia noir in cui si narrano le vicende di un gruppo di adolescenti alla perenne ricerca di popolarità presso i loro coetanei, attratti dalla moda e dallo stile dei loro beniamini (Paris Hilton su tutti).

Sofia Coppola ha scritto il soggetto e la sceneggiatura, ha curato la regìa e ha prodotto il film insieme a Roman Coppola, ma non basta questo, come non bastano le nominations all’oscar (prima donna americana ad averne ricevuta una) nè l’Oscar vinto per “Lost in Traslation” (miglior sceneggiatura originale) nè  il  Leone d’oro del 2010 (“Somewhere”) per dare spessore ad un film che certamente non ha lo smalto della commedia noir.

Non c’è la fascinazione del male che attrae lo spettatore e gli ispira magari una simpatia vagamente perversa per questi ragazzini che si introducono indebitamente nelle case dei Vips di Hollywood quando la Rete annuncia la loro presenza altrove; non c’è spazio per la tenerezza nei confronti di chi porta via un oggetto che appartiene al personaggio a scopo puramente feticistico, anche perchè -come per i serial killers- l’adrenalina li porta a spingere il loro limite sempre un passo più in là, fino a rubare per mostrare gli oggetti durante le feste o addirittura per rivenderli e acquistare altri simboli di un tempo vuoto, assolutamente falso e vacuo, fatto solo di apparenze glamour, di droghe e di un arroganza che poco ha (o dovrebbe avere a che fare) con l’adolescenza.

E’ il film dell’assenza: quella dei valori che questi ragazzi non condividono con larga parte dei lori compagni di scuola, anch’essi trasformati in  un pubblico plaudente e mai visti come compagni di strada fino al traguardo del diploma; quella delle famiglie, inesistenti per buona parte del film, fanno capolino al momento dell’arresto per rivelare, al pubblico in sala, brandelli di uno spaccato familiare vuoto e assolutamente impreparato a comprendere i cambiamenti dei loro figli, trincerati dietro il rispetto politically correct di una privacy che consente ad un ragazzo di nascondere in casa propria la refurtiva senza che nessuno dei suoi conviventi se ne accorga.

Ma è anche il ritmo nella narrazione che manca, presentando all’attenzione del pubblico un primo tempo assolutamente piatto, una sequela di scene in cui si replica sempre lo stesso meccanismo: noia, furto, droga, party, e i dialoghi ripetono (si spera volutamente) con le stesse battute pronunciate dagli stessi personaggi nelle medesime situazioni. Al pubblico sovrano si può suggerire, come ultima battuta, di assistere alla proiezione con figli o nipoti: le loro reazioni alla fine del film sveleranno molto più di quanto di solito siano disposti a dire.

Su Monica Lucignano

Redattore

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