Mingo
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Domenico De Pasquale: si racconta l’attore Mingo

Domenico De Pasquale, è Mingo da sempre. Contrariamente a quello che si può pensare, non è un nome d’arte, ma un nomignolo con qual è stato “battezzato” fin da piccolo. Un irrequieto per natura, debutta sui banchi di scuola, trasformando il liceo scientifico di Bari, nel suo primo palcoscenico.

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Il primo cortometraggio è un cimelio in VHS, che molti dei suoi compagni di università a giurisprudenza (ora illustri avvocati e magistrati), conservano gelosamente. Studia psicodramma a Il Club Dei Cento di Nino Scardina, a Roma per poi tornare a Bari, per amore. Tante le sue esperienze lavorative, dalle radio libere, all’animazione nei villaggi turistici, ma la grande passione è sempre stata il cinema.

I suoi primi produttori sono state le amate prozie Lina e Filomena, che gli diedero come “paghetta” ben cinque milioni per girare in 35 mm il primo cortometraggio: “ E’ stata un’ indimenticabile performance alla fine della quale, c’era scritto Mingo, un attore. Questo lavoro, nel quale avevo riposto tutte le mie energie e anche i cinque milioni delle prozie, ha avuto un successo incredibile. E’ stato proiettato per due anni nei cinema più importanti dal Mexico di Milano, al Farnese di Campo de’ Fiori, a Roma. Tre minuti dei quali vado fiero! Il cinema è davvero la mia vera passione, insieme al teatro che amo per la fisicità espressiva che lo caratterizza”.

Benvenuto su La Gazzetta dello Spettacolo. Mingo e le imitazioni, le improvvisazioni e le sperimentazioni. Mingo che fa sorridere e pensare. Quanto può essere difficile passare da un ruolo divertente a uno drammatico?

Cambiare registro è un meccanismo che a me, per fortuna, viene naturale: un attitudine con la quale si nasce e io “lo nacqui”, come direbbe il grande Totò, ma che va esercitata. Anche per il ruolo di Pin ho osservato a lungo i bambini, registrandoli per poi esercitarmi davanti allo specchio. Ho frequentato una scuola romana di psicotecnica, più che puramente attoriale, Il Club dei Cento di Nino Scardina, che mi ha aiutato molto nel perfezionamento. Personalmente, credo che si debba studiare e preparare di continuo perché lo studio nell’art, non finisce mai. E’ una grande gioia, una passione che non mi stanca e che fatico anche a considerare un lavoro. Se ho un limite, è che mi annoia fare sempre la stessa cosa, ho bisogno di crescere, di mettermi alla prova, di migliorarmi sempre di più. Quando facevo l’animatore, dopo un po’di mesi me ne andavo perché quando diventava troppo “facile”, per me era già superato e cercavo altre sfide. Un’irrequietezza congenita, che mi costringe a non accontentarmi mai, spingendomi sempre a sperimentare nuove interpretazioni e nuovi progetti.

Hai dichiarato di amare in particolar modo i ruoli estremi, drammatici dei folli. Quali tra i tanti ti ha emozionato di più?

Uno tra i tanti, il commissario Martini nel lungometraggio Nomi e cognomi diretto da Sebastiano Rizzo con Mariagrazia Cucinotta ed Enrico Roversi: un piccolo ruolo, al quale mi sono davvero appassionato. L’interpretazione che, però, mi ha messo in subbuglio più di altre è quella in Emoticon, un cortometraggio nel quale interpreto un folle, una persona sconnessa che poi alla fine tanto sconnessa non è. La storia è ambientata in un futuro dispotico e racconta le vicende di un uomo solo, braccato da loschi figuri per il suo rifiuto dei social e nella fattispecie di whatsapp. Un personaggio drammatico dalle mille sfumature che mi ha permesso di mettermi in gioco completamente. Ricordo una scena, che non mi veniva proprio e come a un certo punto, esasperato dal regista, ho vomitato un monologo, in cui ho riversato tutta la mia frustrazione, rivelandosi, miracolosamente, perfetta. Emoticon, scritto da Claudio Fois e diretto da Antonio Palumbo, mi è valso anche un premio come “best actor” al London Film Festival Award 2018, del quale vado fiero.

Mingo in foto per lo Spettacolo teatrale  Amleto in cui interpreta Re Claudio
Mingo in foto per lo Spettacolo teatrale Amleto in cui interpreta Re Claudio

Ogni interpretazione equivale a un nuovo viaggio. Cosa ti porti a casa? Che cosa ti rimane addosso di quell’anima che hai indossato?

Mi porto a casa la stanchezza, perché ci metto proprio tutto. Mi rimane qualche tic, com’è successo con Pin, perché a livello mnemonico, i movimenti muscolari che avevo dovuto imparare, non è stato possibile resettarli subito. Fortunatamente a livello psicologico, non rimangono “cicatrici” e anche se, mentre studio, ci entro completamente, una volta terminato quel ruolo, mi tolgo di dosso tutto. Credo poco a chi dice che gli rimane dentro l’ombra di quell’anima, mi sembra più una posa. A livello umano, invece, è tutta un’altra cosa: mi rimane tantissimo e, grazie alla conoscenza intima che posso farne, mi cambiano la vita.

Ci racconti un aneddoto da set?

Nel film Nomi e Cognomi, che ti ho appena citato, è stato come tornare a giocare. Sì, perché da bambino sognavo ad occhi aperti, di essere un commissario di polizia un ruolo per il quale credevo di sapere tutto: alt, mani in alto e l’immancabile calcio alla porta per sfondarla e fare irruzione. Ti puoi immaginare, quando ho avuto finalmente l’opportunità di recitare in quel ruolo! Invece no, ho dovuto costatare a mie spese, come la finzione sia diversa dalla realtà. Arrivati alla fatidica scena in cui avrei dovuto sfondare la porta con un calcio poderoso… niente, non c’è stato verso. Ho provato e riprovato, ma quella maledetta porta non cadeva e il piede nonostante l’impeto, non otteneva nessun risultato. Idem con le manette, che sembra facile mettere, ma non lo è per niente. Ricordo che sono morto dal ridere e quelle scene che avrebbero dovuto essere drammatiche, hanno scatenato un’ilarità generale. Per le manette, abbiamo dovuto cambiare inquadratura!

Se potessi scegliere un nuovo personaggio da interpretare, che cosa ti piacerebbe fare?

Mi piacerebbe un serial killer, uno psicopatico, perché se devo scegliere tra buoni o cattivi, m’intrigano di più i cattivi. Scherzi a parte, mi piacerebbe tantissimo un ruolo in una commedia francese, che preferisco a quella italiana, dove è la battuta, la comicità a farla da padrone. Credo che per il mio modo di recitare, la commedia francese lasci più spazio alla mimica, al non detto, una raffinatezza che m’intriga parecchio. Forse rifarei un ruolo shakespeariano, che ho affrontato per la prima volta nell’incantevole Segesta, con il ruolo di Re Claudio, durissimo, ma che mi ha regalato emozioni impagabili. Confesso che ho rischiato di mollare, non mi preoccupava, ma il timore di non riuscire a ricordare tutto. Avevo attraversato un periodo complicato, di dolore e quindi mi sentivo insicuro. Eppure è stato un bel successo, una sfida, che mi ha reso felice. Andare a Segesta, al Festival mondiale del Teatro Classico in un anno dedicato interamente a Shakespeare, non è proprio una passeggiata. Nessuno mi ha riconosciuto in scena, avevo la barba e solo dopo lo spettacolo, qualcuno, rendendosi conto che ero proprio “quel” Mingo, ha chiesto di fare una fotografia con me. Recitare a Segesta alla luce del tramonto è un’esperienza incredibile che non potrò dimenticare insieme a quei dieci minuti di applausi, interminabili ed emozionanti.

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