“O sei umano o sei disumano”, è questo il ritratto di Alberto Fortis, che emerge dalle sue pagine social; quello di un uomo senza mezze misure. L’artista, che il 3 giugno ha spento sessantasette candeline, ha al suo attivo sedici album realizzati tra Italia, Stati Uniti e Inghilterra, un disco di platino, due d’oro e oltre un milione e mezzo di dischi venduti.
Ha collaborato con i grandi della musica, tra cui George Martin, produttore dei Beatles, la London Philarmonic Orchestra, i PFM, Gerry Beckley degli America, Carlos Alomar, produttore di David Bowie, Bill Conti, Guido Elmi e l’Orchestra Sinfonica Arturo Toscanini.
Sempre aderente alle questioni sociali e umanitarie, Alberto Fortis è ambasciatore UNICEF come testimonial dei bambini Navajo, testimonial dell’Associazione Italiana contro la Sclerosi Multipla e dei City Angels, associazione umanitaria di volontariato sociale.
Benvenuto su La Gazzetta dello Spettacolo ad Alberto Fortis. Lei ha aperto le strade a contaminazioni particolari come il pop gospel, con “Settembre” e lo pseudo rap con “Plastic Mexico”. Qual è il genere musicale, secondo lei, che oggi andrebbe rivisitato in questa chiave?
Oggi, quello che la musica dovrebbe recuperare come bandiera, come in qualsiasi settore e periodo storico, parte dalla sostanza delle cose. Personalmente, avrei voglia di vedere personaggi con un carattere più coraggioso, definito, e fuori dai soliti quattro punti cardinali. Mi manca una generazione di ricambio perché manca la volontà di creare un onda nuova che, nel miglior caso possibile, possa coniugare l’esperienza di una carriera con la voglia di attualità e innovazione.
Lei si avvicina alla musica da piccolo; ricorda com’era giocare con le note musicali?
A cinque anni chiesi come regalo a Natale una batteria e, quando arrivò, non la lasciai più. Anche se, a oggi, il mio strumento è il pianoforte, ho suonato in moltissime band come batterista. Il gioco stava proprio nell’approccio che può avere un bambino alla musica. Poi è la vita a decidere la direzione da prendere. Io sono stato studente di liceo classico, poi di medicina. Essendo nato in una famiglia di medici, il mio destino sembrava fosse quello, mentre invece è stata più forte l’arte; quindi, ecco che il gioco si è trasformato in qualcosa di serio.
Si ricorda il momento preciso in cui c’è stato questo cambio di rotta?
A diciotto anni, ho cominciato a scrivere le prime cose, ci sono stati i primi tentativi di farmi conoscere nell’ambiente discografico, contemporaneamente allo studio universitario. Dopo due anni, arrivò un’offerta di contratto da parte Polygram (oggi Universal), grazie a Mara Maionchi e al produttore Alberto Salerno. Non ci ho pensato due volte ad accettare e il destino volle che il primo album fosse un successo, cosa che mi convinse a proseguire su quella strada.
Percorrendo la strada di una sua canzone simbolo, cosa ha fatto sì che la storia di Milano e Vincenzo cambiasse?
Quella canzone è dedicata al discografico Vincenzo Micocci, che aveva rappresentato per il mio progetto un impedimento di due anni e mezzo. Poi si scoprì che non fu lui a non volerlo portare a termine ma qualcun altro all’interno di quella che, allora, era la casa discografica RCA. In lui avevo identificato la persona che, ogni mese, mi diceva che quello successivo si sarebbero cominciati i lavori. Può immaginare come, per un ragazzo di vent’anni, stare due anni con una promessa sospesa possa sembrare un’eternità. Quindi alla fine sbottai con questa canzone. La vita però è fatta anche di persone intelligenti e, per una strana coincidenza, conobbi i figli di Vincenzo Micocci e, con la sua famiglia, si instaurò un rapporto tale che poi Vincenzo scrisse la sua biografia intitolandola proprio “Vincenzo io ti ammazzerò”. Quando se ne andò, proposi una versione di Milano e Vincenzo unica e originale dedicata al discografico Micocci dove il verso divenne “Vincenzo io ti abbraccerò”.
Restando nella sfera personale, “La sedia di lillà” è una canzone che parla di una persona a lei molto vicina dove ci propone un finale tragico ma sappiamo che la realtà è stata differente. Come mai ha fatto questa scelta?
Perché il percorso di questa persona è stato molto provante e, nonostante la sua condizione fisica, quella persona ha vissuto ancora quindici anni. Quando questo mio familiare mi parlava del suo stato d’animo, nascondeva una certa tragedia e, in qualche modo, ho voluto trasfigurarla artisticamente, interpretando la sua stanchezza e la sua difficoltà. Il grande insegnamento che mi ha lasciato è riassunto nella frase “cogli il giorno e tanto amore, cogli i fiori di lillà”. È quel concetto tipico del carpe diem per il quale sarò sempre grato.
Alberto Fortis autore ha scritto anche delle poesie e un libro in cui si racconta. Nello scrivere, si è guardato dentro allo stesso modo in cui ha composto le sue canzoni o qualcosa si è edulcorato?
La narrativa ha un approccio veramente molto diverso perché la poesia si avvicina alla scrittura dei testi delle canzoni mentre, nel raccontare una storia, non si parla della sintesi o dell’immediato come si fa con una canzone. Insieme a Maurizio Parietti, presidente del mio fans club e a Rossana Lozio, poetessa, per la mia biografia abbiamo tracciato un metodo di narrazione dove io raccontavo tutto ciò che mi era successo con una certa precisione cronologica. Non è stato facile, una volta descritta la scena che si vuole trasmettere al lettore, bisogna rivederla nella forma per far sì che sia comprensibile, avvincente e in qualche modo possa catturare l’attenzione.
Un lavoro differente anche a livello emotivo per Alberto Fortis?
Certo; in quel caso, ancora di più ci si pone sull’altra sponda del fiume per capire se il lettore capisce o meno il senso di ciò che sta leggendo, senza l’aiuto dell’immagine immediata che offrono la canzone e la poesia.
Negli Stati Uniti lei ha passato molto tempo. C’è qualcosa che ha assorbito da quella cultura e poi ci ha riproposto?
Certamente; all’inizio degli anni ’80, la differenza professionale, culturale, di servizi come gli studi di registrazione e la capacità media dei musicisti era abissale rispetto all’Italia. Poi negli anni, il mondo è cambiato, la musica è diventata liquida e siamo entrati nell’era del web. Questo ha permesso alle differenze stilistiche di prestazione professionale di accorciarsi. Le capitali della musica come Los Angeles e New York sono state una grande scuola per me; questo è ciò che mi ha portato a offrire la sostanza, senza preoccuparmi di replicare un disco che era già primo in classifica ma lasciandomi libero di seguire l’ispirazione di quel momento, cambiando piattaforme di collaborazione e produzione per dar voce ogni volta a ciò che sentivo in quel momento.
Nella parte più recente della sua carriera, troviamo “Sono un uomo”, canzone che viene presentata a Una voce per San Marino. In cosa possiamo trovare il marchio di fabbrica di Alberto Fortis?
È una collaborazione che mi è stata chiesta da amici professionisti. A ciò che ho sentito nel provino iniziale, ho aggiunto a questa matrice, che parlava la lingua del pop rock di estrazione anni ‘70 misto, un tocco pop gospel, pop soul che a me piace molto; per esempio, la parte iniziale che ho scritto, con quel coro che sembra quasi una preghiera gospel, porta un pizzico di internazionalità.
Un’artista storico come Alberto Fortis si affianca a un gruppo di giovanissimi; questo è già un segno di quanto la musica possa legare. Quali sono gli ingredienti per suonare insieme?
La cosa funziona quando c’è uno seme di corrispondenza del gusto artistico e di come si concepisce l’arte. Sono ragazzi giovani ma che attingono risorse là dove la cultura affonda le radici del periodo ’70-’80. Fra qualche anno sarà come parlare della musica classica, in qualche modo. Nei brani di quegli anni, si avverte una complessità, una ricerca, una preparazione nella scrittura della canzone che è il bene di spessore più alto rispetto a certe produzioni di oggi. Il rinascimento artistico deriva dal coniugare le esperienze e le conoscenze del passato con le politiche di attualità e, chiaramente, di contemporaneità stilistica di oggi; brani come “Venezia”, “MamaBlu”, “NYente Da DiRe” ne sono un esempio. La matrice comune è una affinità e oggi, già il fatto di avere identità artistiche assonanti, fa parte di un codice di riconoscimento che in molti casi si può concretizzare in collaborazioni, produzioni e creazioni.
Che legame ha con il popolo Navajo di cui si è fatto portavoce?
È un popolo che io adoro, avendo maturato una ricerca umanistica e spirituale. È uno dei popoli che più mi affascina perché è depositario di verità importanti, al di là di come l’epopea western ce l’ha raccontato. I Navajo rappresentano un etnìa che ha nel suo credo il rispetto per la madre terra, per il simile, per gli equilibri umani. C’è una saggezza innata del popolo nativo americano che a me piace moltissimo, che metto in parallelo con certi aspetti dell’India che mi danno una risposta al senso della vita.
Cosa le ha trasmesso invece l’incontro con il Dalai Lama?
Mi ha fatto capire quanto la saggezza sia la risposta alla nostra stessa esistenza. Il Dalai Lama mi ha trasmesso questa forza anche di indagine, soltanto con uno sguardo. Mi sono sentito messo a nudo dai suoi occhi, come se riuscisse a capirmi nella mia sostanza. Con Papa Francesco è stata la stessa cosa, mi ha trasmesso una grande forza umana. Se si arriva a ricoprire delle cariche così importanti, significa che si è geneticamente dotati di qualcosa di speciale e di superiore.
Peculiarità che si ritrova anche nella sua passione per l’esoterismo. Qual è la più grande verità occulta della vita?
È il rifiuto del dogma. La verità può avere due sfumature; può essere occulta per poi scoprire la luce, oppure occulta per poi diventare in qualche modo uno schermo, un’infatuazione o un indottrinamento. La chiave di tutto è il dogma perché viviamo in una società che ci ha convinto che la guerra è una malattia della specie umana.
È la stessa società dove il più grande assurdo è che la religione diventa la madre di tutte le guerre. Queste sono le cose che mi fanno capire che il concetto del dogma è quello che rovina tutto perché il dogma, alla fine, è una chiave di potere economico e sociale. Ecco perché, in determinati periodi della storia, abbiamo un’arte molto bassa, mi riferisco quindi anche alla musica, che è la forma artistica più invidiabile; proprio perché il potere fa sì che l’arte non funzioni come risveglio, che non funzioni come presa di coscienza singola che poi darebbe origine a una società più cosciente, conscia e meno manipolabile. Per parafrasare un pensatore orientale, ricordiamoci che noi siamo come dei fiori che crescono sul ciglio della strada senza chiedere niente a nessuno ma sempre pronti a farci cogliere da chi davvero ci sa riconoscere. Io spero che la specie umana si renda conto anche della relatività della sua permanenza sul pianeta, perché queste persone folli che ci portano a vivere nella guerra, si rendano conto che, alla fine, tutto è risolvibile.