Dylan è sicuramente uno degli artisti che non divide le generazioni. Piuttosto le accomuna. Di Bob ci si può fidare. Dylan non parteggia per chi lo ha osannato nel secondo 900 e non parteggia per chi è nato ieri, quando le due torri sono state inghiottite dal terrorismo. Al limite, il menestrello americano, fa il tifo per se stesso. Comunque sia, l’esercito di ammiratori lo sta aspettando con ansia. Eppure la paura che ci sia una punta di delusione per la festa aspettata, o che si manifesti un disagio emotivo nell’arco di questo pur atteso appuntamento, s’insinua nella mente. Non per le note, la tecnica, la professionalità della band che accompagna Mr. Tambourine. No. Nemmeno per lo show light che illuminerà il maggior profeta/menestrello del millennio che ormai, dietro, giace con il suo carico di progresso e guerre scellerate. La delusione e il disagio potrebbero nascere, paradossalmente, proprio dalla forte personalità del mitico Bob. E’ il suo modo di essere poeta che mette in allarme l’ascoltatore; è quel suo modo tipico che mette in ansia o infervora. Chi l’ha visto in passato ormai sa come si presenta e come interagisce. Il carattere, per tutti gli individui, è quello che è: per quanto migliorabile l’impronta è unica. Prendere o lasciare. Nel caso di Bob Dylan, non si discute: prendere. Si può già immaginare il suo esordio tra le rovine di Caracalla. Magari il palco sarà un po’ disadorno. Sarà buio. All’inizio solo qualche piccolo faro. Ed eccolo.
Si confronterà per un attimo con i suoi musicisti per un ultimo accordo. Verbale o di chitarra. Darà le spalle al pubblico di Blowin’in the Wind e a quello, molto più recente, di Shadows in the Night. La sua famosa voce, maturata e inacidita dai mesi e dagli anni, dalle proteste e dalle visioni incastonate nei testi delle sue song, non proferirà un saluto o una parola.
Lo sguardo fisso verso un paesaggio lontano e poi le prime note cantate da una campana appesa alla torre del tempo. Sarà comunque, e finalmente, un grande concerto.
Assistere e partecipare a un concerto di Bob Dylan è un’azione quasi religiosa
Insomma, un atto in bilico tra la passione e la fede. La fede in un sacerdote del folk. Perlomeno e all’inizio della sua carriera era folk. Poi, giustamente, si è arrampicato sui climi elettrici delle Stratocaster – d’altra parte si era limitato solo al folk per ragioni pratiche, ovvero non poteva permettersi una chitarra elettrica -, problema superato con il successo.
L’ipotesi dello svolgimento del concerto è suffragata ovviamente dall’esperienza che i suoi fan hanno dei concerti trascorsi. Sicuramente negli anni 90 e a Roma, la sua voce si presentava meno acida e rotta. I luoghi erano il Palasport, la sala di Santa Cecilia, la cavea dell’Auditorium. Tuttavia, pur se i 90 appaiono lontano, molto più sprofondato nel tempo è il 5 gennaio del 1963. In quel momento e sempre a Roma, precisamente al Folk Studio di via Garibaldi, Bob Dylan, anche lì, si esprime con poco clamore ma molto talento. Da quel periodo il suo stile ha subito variazioni straordinarie. E’ passato dal folk al blues, per approdare al Newport sound elettrico proseguendo per il country e, in tempi recenti, approdando perfino allo stile di Frank Sinatra. Il 29 giugno, quindi, a Caracalla si aspetta l’uomo del quale Lennon disse: “Sarà Dylan a mostrare la strada”.