Oggi incontriamo lo scrittore e studioso Stefano Sciacca, per parlare di modernità e culto dell’attualità.
Benvenuto a Stefano Sciacca su La Gazzetta dello Spettacolo. Nel suo studio intitolato Sir William Shakespeare, buffone e profeta, lei ha paragonato il teatro shakespeariano al cinema. Può spiegare meglio questo confronto.
Shakespeare seppe intrattenere la grande massa promiscua che affollava i teatri londinesi, anticipando quanto sarebbe divenuto la norma nella società moderna contemporanea. Un unico spettacolo in grado di interessare popolo e aristocrazia.
Shakespeare parlava all’immaginazione degli uomini, alla quale sovente si rivolse direttamente, chiedendone la complicità per superare gli angusti limiti delle scenografie dell’epoca. Suggeriva immagini grandiose ricorrendo a mezzi che oggi considereremmo estremamente limitati. Nel farlo, tuttavia, stimolava una capacità – l’immaginazione, appunto, che Italo Calvino avrebbe definito «cinema interiore» – assai più sviluppata nel pubblico di allora di quanto non lo sia in quello odierno. Perché il cinematografo si è sostituito a questo cinema interiore, atrofizzando l’immaginazione dell’uomo contemporaneo.
Attenzione, però. Non si tratta soltanto di divertimento. L’immaginazione è la facoltà che presiede alla capacità di dubitare e la poetica shakespeariana è fondata sul dubbio.
Questa è la più preziosa lezione – artistica, ideologica, politica e civica – che, a parere mio, il teatro di Shakespeare impartisce da secoli a generazioni di uomini moderni e iper-moderni. Ammesso che tra costoro rimanga ancora qualcuno disposto a imparare.
Una lezione pericolosa che talvolta subì la scure della censura e che, forse, avrebbe potuto procurare allo stesso drammaturgo guai con ben altro genere di scure. Del resto, quello dell’artista e dell’intellettuale, se assolto in maniera indipendente, libera, impegnata, è un compito spesso ingrato e talvolta pericoloso. Specie in contesti dominati dalla Modernità.
Seneca, Dante, Van Gogh, Nietzsche e molti altri pensatori – che qualcuno avrebbe dispregiativamente definito «degenerati» – hanno pagato a caro prezzo la propria autonomia, la propria inattualità.
Seneca, Dante, Shakespeare e Van Gogh vissero in epoche diverse tra loro, eppure lei sostiene che li accomuni il concetto di inattualità. È giusto sostenere che questa sia la tesi principale di Sir William Shakespeare?
Certamente sì.
La sensibilità di Shakespeare fu nutrita dalla controversa relazione che l’artista intrattenne con la società in cui visse e della quale, al riparo del sistema-teatro, mise ripetutamente alla berlina contraddizioni e ipocrisie. Una società, quella dell’Inghilterra elisabettiana, scossa e turbata da profondi cambiamenti sociali, giuridici ed economici destinati, in breve, a cambiare il volto dell’Occidente e assai più vicina a noi di quanto non saremmo indotti a credere.
Partendo dall’analisi della poetica shakespeariana, ho confrontato opere e vicende biografiche di numerosi altri intellettuali che hanno condiviso con il drammaturgo inglese un profondo malessere interiore di fronte a un diffuso atteggiamento di ottusa autoreferenzialità.
E così Sir William Shakespeare tenta di definire la «tragedia moderna dell’artista». Quella vissuta e sofferta, anche in epoche diverse, dagli intellettuali che non si sono accontentati di compiacere il potere e l’autorità, rifiutandosi di sposare acriticamente i valori imposti ai loro contemporanei dall’obbedienza alla élite e dal culto dell’attualità e della moda.
In altre parole, pensatori inattuali che, appunto nella propria inattualità, hanno scoperto la via per le stelle. La maniera cioè di parlare alle generazioni successive. Di imporsi sul tempo che scorre e travolge tutto quanto pretende soltanto di essere costantemente à la page. Insomma, la maniera di divenire autentici classici.
Il presupposto logico o meglio etimologico di queste considerazioni è la mia personale concezione della Modernità, intesa non già come epoca storica, quanto piuttosto come culto dell’attualità, come particolare e patologico atteggiamento nei confronti del rapporto tra passato e presente, moda e tradizione.
Il termine tardolatino «modernus», infatti, è costruito sull’avverbio «modo» che esprimeva immediatezza e attualità. Perciò questa parola e il concetto attraverso essa espresso richiama, focalizza, esaurisce l’attenzione sul momento presente, predicando una cesura con l’esperienza dei padri, il «mos maiorum».
In questo particolare periodo di crisi, sanitaria, economica e valoriale, quale significato creda possa assumere per il lettore contemporaneo Sir William Shakespeare, buffone e profeta?
Innanzitutto ritengo che, pur nella scomoda inattualità di certe sue conclusioni, si tratti di un testo fortemente attuale.
Un testo che esorta ad abbracciare la «filosofia del buffone». A non prendersi mai troppo sul serio. A revocare in dubbio il dogmatismo di ogni moda. A cercare la verità nell’umorismo, quale poetica dei contrari. Dunque, a non essere estremisti ma a contemperare piuttosto gli opposti. E revocare in dubbio tutto ciò che passa per ovvio e indiscutibile, come l’infallibilità della scienza, la bontà del progresso, la reale consistenza di un benessere fondato esclusivamente sul consumo. Mettere in discussione l’idea stessa che il mondo (occidentale) nel quale viviamo oggi sia il miglior mondo possibile. E non abbia proprio nulla da imparare dal passato, dalla tradizione. Contestare l’assunto che la novità è sempre e comunque preferibile a quanto viene tramandato da una generazione all’altra e rispetto a cui non soltanto ci sentiamo ingrati, ma non abbiamo neppure intenzione di assumerci la responsabilità della preservazione. E ciò sebbene la parola cultura, che deriva dal latino «colĕre», significhi coltivare e implichi un raccolto che non può prescindere dalla semina compiuta da coloro che hanno arato il campo prima di noi.
In quanto autore, invece, cosa ha significato per lei dedicarsi a Sir William Shakespeare, buffone e profeta?
Innanzitutto ha comportato una riflessione su me stesso e sull’attività che svolgo. Una riflessione cioè sul ruolo e sulla condizione di studioso nella società contemporanea. Sulla sofferenza e sulla solitudine alla quale essi condannano, quando tale attività non riesce a essere adeguatamente sostenuta dal successo commerciale e dalla notorietà del nome di un autore.
Giacché, nel moderno mercato dell’arte, il nome di un autore molto sovente conta ben più del titolo delle sue opere e ancor più del loro contenuto. È un marchio d’impresa. E questo era chiaro già ai tempi di Balzac, allorché Lucien Chardon tentava disperatamente di guadagnarsi il titolo di de Rubempré e di ottenere fama come editorialista per riuscire a convincere gli editori parigini a pubblicare i propri manoscritti inediti. Del resto, lo stesso Balzac tentò di nobilitare il proprio cognome anteponendovi un «de».
Analogo assillo aveva tormentato anche Shakespeare che, per molti anni, cercò di ottenere uno stemma nobiliare pur di riscattare, nel suo caso, la vergogna legata a una posizione sociale profondamente diversa da quella del tradizionale artista di corte e assai più simile a quella di un qualunque commerciante.
L’artista moderno è imprenditore di se stesso e, quando non riesce ad affermarsi, quando non diviene celebre e ricco, finisce inevitabilmente per avvilirsi. È quanto testimoniò la riluttanza di Dostoevskij, durante il viaggio attraverso la borghese Europa occidentale, di registrarsi in albergo come «homme des lettres», convinto che ciò gli avrebbe precluso il rispetto dell’albergatore. È quanto ancora racconta il senso di inadeguatezza del giovane scrittore Tonio Kröger che dovette essere il medesimo del suo autore, Thomas Mann. È lo stesso ancora subito da Francis Scott Fitzgerald nel corso del controverso rapporto con l’attraente ma spietato bel mondo dei ruggenti anni venti e raccontato con struggente poesia nel dramma del grande Gatzby, il quale, prima di fare fortuna, non si chiamava affatto Gatzby, ma cambiò il proprio nome per la vergogna che gli procuravano le sue umili origini.
Questa necessità di imporsi, di essere alla moda, di orientare persino la moda, rischia paradossalmente di rendere gli intellettuali schiavi della moda. Di affliggerli cioè con pregiudizi legati al successo e di inaridirne la curiosità nei confronti di tutto ciò che, appunto, non va di moda.
Tuttavia talvolta è possibile fare incontri che restituiscono fiducia nella natura del vero intellettuale, colui che non smette mai di cercare nuovi stimoli e che non si limita a giudicare un progetto o un’opera in base al nome di colui che lo ha realizzato, ma si spinge oltre, a valutare la bontà di quel progetto o di quell’opera di per se stessi considerati. Sir William Shakespeare mi ha appunto concesso una simile fortuna, divenendo lo strumento di confronto e di dialogo con due intellettuali autentici. Ai quali devo consigli preziosi e una dimostrazione di interesse che ha significato molto nel mio percorso umano e creativo. Soprattutto, due persone che non hanno esitato a spendere il proprio nome – già quel nome che tanti custodiscono come una reliquia e passano il tempo a spolverare – per aiutare a promuovere il manoscritto di un autore che un nome noto, ricercato, ammirato ancora non ha e, forse, non avrà mai.
Credo che non esista davvero prova più eloquente di questa che qualcuno è riuscito a interiorizzare l’esortazione shakespeariana a non prendere il successo e l’affermazione troppo sul serio.
Ora siamo curiosi. Può dirci, per caso, di chi si tratta?
Certamente e con vero piacere. Perché, in fondo, non riesco a immaginare sentimento più piacevole della gratitudine.
Il primo al quale mi sono rivolto è stato il professor Stephen Greenblatt dell’Università di Harvard. È un eminente studioso che, fino al momento della nostra corrispondenza, avevo conosciuto soltanto attraverso le sue pubblicazioni. Il suo Life, art and passions of William Shakespeare, actor-manager mi è stato molto prezioso, non solo per realizzare il mio Sir William Shakespeare, ma anche per approfondire la mia conoscenza della Modernità e di me stesso.
Perciò, dopo aver realizzato una prima bozza del mio manoscritto, provai a presentarla al professor Greenblatt. Costui, nonostante gli innumerevoli impegni di accademico e pubblicista, lesse in un solo weekend il materiale che gli avevo sottoposto. Quindi espresse un sincero apprezzamento, individuando oltretutto l’originalità del mio lavoro proprio in quegli aspetti ai quali io tenevo maggiormente: l’approccio multidisciplinare e la definizione di Shakespeare quale intellettuale inattuale, in conflitto con la società in cui visse.
Il secondo studioso al quale Sir William Shakespeare e io dobbiamo molto è il professor Massimo Recalcati che, in Italia, non ha proprio bisogno di presentazioni. Ho avuto la fortuna di conoscerlo in seno a una Fondazione Culturale presso il comune di Noli che per qualche tempo il professor Recalcati ha presieduto e si è trattato di un incontro ricco di stimoli intellettuali e umani.
È stato appunto lui ad aiutarmi nella ricerca di un editore per il mio manoscritto, dimostrando fiducia e stima nel mio lavoro. La massima gratificazione che un autore possa sperimentare.