Tutta una questione di algoritmo, di Luca Bovino

Luca Bovino: l’esordio con “Tutta una questione di algoritmo”

È uscito sul mercato editoriale il romanzo “Tutta una questione di algoritmo” (Brè Edizioni) che segna l’esordio letterario dello scrittore Luca Bovino e che gli è valso la Menzione Speciale al Premio Bukowski 2020, arrivando finalista nella cinquina del I concorso internazionale Montag 2020.

Tutta una questione di algoritmo, di Luca Bovino

L’autore racconta la storia di un viaggio di lavoro nel quale il protagonista finisce per trovarsi in una serie di situazioni paradossali da cui trae esperienze angosciose, e finisce per smarrire ogni rapporto coerente con la realtà, e con sé stesso.

Nelle nebbie del suo delirio onirico, il malcapitato eroe realizza che ogni programma razionale è ormai infranto, e non gli resta altro che contemplare le falle del proprio algoritmo esistenziale.

Luca Bovino, cosa si intende per algoritmo esistenziale? Sembra tu abbia voluto accostare un concetto matematico a uno filosofico…

Sì, e francamente non ci vedo niente di strano. Filosofia e matematica parlano un linguaggio fatto con le stesse regole. Sempre uguali da oltre duemila anni: identità, non contraddizione, terzo escluso. Usano una grammatica comune per descrivere i fenomeni. Qualcuno lo fa con i numeri evitando di leggere Hegel, qualcun altro lo fa con le parole evitando di derivare gli integrali. Ma non dicono cose differenti: applicano sempre sillogismi, più o meno nascosti. Un po’ come sto facendo anch’io in questo momento; fare un ragionamento significa coordinare enunciati secondo questi tre criteri di deduzione. Leibniz auspicava che di fronte a una controversia non si dovesse più dire “discutiamo” ma “calcoliamo”. Forse era un po’ esagerato, e troppo ottimista. Non succederà mai, siamo troppo innamorati della nostra posizione, anche se sbagliata, e quindi ricorriamo alla retorica, come ricordava Schopenhauer. Però, quanti matematici in filosofia! Pitagora, Platone, Cartesio, Liebniz, Galileo, Russell, Godel, Einstein, giusto per dirne qualcuno.  E poi Wittgenstein, il più grande filosofo del ventesimo secolo, secondo il Times. Comunque, non vorrei dare un’impressione sbagliata: non vado molto d’accordo né con la matematica, né con la filosofia, anzi. Sono i bersagli preferiti dei miei sarcasmi. Un “algoritmo esistenziale” per me è soltanto un ossimoro; il titolo che ho dato al libro è chiaramente un’antifrasi. E la cosa divertente è che nessun algoritmo potrà mai riconoscerlo: l’ironia è sempre meta testuale; la prima volta che un computer avrà istruzioni per ridere da solo il mondo finirà. In fondo la vita non è razionale. Non ci sarà mai nessuna equazione, o teoria, a spiegarci come funziona davvero la natura. Sono arrivati ad ammetterlo anche i fisici, dopo aver scoperto (o forse inventato) la teoria dei quanti. Woody Allen disse una volta: se Dio esistesse dovrebbe spiegarmi molte cose; e in effetti è così. Però, diciamola tutta, non penso neanche che la realtà sia narrativa; cioè che esista una mano invisibile a distribuire premi e lieti finali. Mi piacciono i romanzi proprio perché sono romanzi. Ma non ci credo. La razionalità e la narratività sono soltanto le proprietà dei nostri emisferi cerebrali. Certo, guardiamo il mondo attraverso loro. Ma appartengono a noi, non al mondo.

Se dovessi usare tre aggettivi per descrivere la tua opera a quali ricorreresti?

Domanda insidiosa. Ennio Flaiano ammoniva, nella sua esilarante Grammatica Essenziale: non si risponde degli aggettivi incustoditi. Ed aveva ragione. Ne basta uno fuori posto e si può finire in tribunale. Sono la dannazione di ogni romanziere, la scappatoia per sfuggire dal terrore perifrastico. Dall’imposizione di una lingua costruita sul dualismo sostantivo-aggettivo, come specchio del rapporto tra sostanza e accidenti. David Foster Wallace in un racconto impiegò diverse pagine per spiegare cosa significasse “depresso”. E per farlo usò anche intere sequenze di parole tenute insieme con i trattini. È una tecnica molto diffusa nella lingua inglese, che chiamano anche en dash. Rende benissimo l’idea. L’ho usato anch’io nel mio romanzo. Quindi, quanto ai tre aggettivi, il primo dovrebbe questo: un-romanzo-che-non-si-possa-ancora-esprimere-con-agli-aggettivi-attualmente-esistenti-per-descrivere-i-romanzi.

Quanto al secondo aggettivo (visto che proprio dobbiamo usarne), direi: metamorfico. Perché una delle caratteristiche del mio libro è la modifica continua del livello di lettura e di fruizione che permette. Prima un livello letterale, poi morale, lirico, allegorico, simbolico, postmoderno, onirico, e tanti altri. Non appena il lettore ha iniziato a condensare un’aspettativa su un livello, ad esempio pensando di trovarsi di fronte ad un thriller, come lascerebbero presumere le sequenze iniziali, improvvisamente accade altro. Il livello successivo farà crollare le supposizioni precedenti, come un soffio d’aria su un castello di carte.

Terzo aggettivo: picaresco. In fondo, è il racconto di un viaggio. E questo tipo di racconto ha metodiche rimaste, più o meno, costanti sin dal Medio Evo. Gli spostamenti a cavallo ora si fanno in automobile o in aereo; non si cerca il grall ma qualcosa di altrettanto ineffabile; non si combattono i draghi ma mostri ugualmente pericolosi. E poi, una volta in strada, si ha la stessa sensazione di smarrimento del cavaliere errante: la realtà che si immaginava di trovare prima di partire – con i suoi principi, codici, riti, modi – sembra scomparsa.

Troviamo qualcosa di autobiografico nel protagonista?

Sì, necessariamente. Ogni testo è idiosincratico, ipersoggettivo. La riprova, diceva Todorov, è che non potrai mai avere due racconti identici di uno stesso fatto. Né due riassunti uguali di uno stesso testo, come sanno bene gli studenti, loro malgrado. Quindi, in ogni scritto c’è il DNA del suo autore, i suoi tic, le sue devianze, le sue ossessioni. Ad ogni modo, il racconto ha effettivamente un antecedente biografico. Una mattina mi trovai in una libreria, tanto lontano da casa, stanco e spossato da un viaggio di lavoro, e mi imbattei in un libro che aveva un contenuto che mi sembrava originale. Mi partì un What if. Provo a spiegarmi con un esempio. Nell’Odissea l’indovino Tiresia diede un oracolo ad Ulisse pieno di immagini assolutamente incomprensibili: c’è un remo, un ventilabro, un popolo che non conosce il sale, e tante altre cose misteriose. Erano delle evidenti allusioni, ma non si capiva bene a cosa. Ero molto deluso del fatto che nessun critico ne parlasse mai, e mi chiedevo perché l’autore l’avesse lasciata così vaga. Poi, per caso, in un racconto dell’Aleph di Jorge Luis Borges trovai la spiegazione che Omero aveva dimenticato di dare. Allora non ero stato l’unico a pensarci? Provai una sensazione di felicità indescrivibile e travolgente. Ecco, quel giorno, in quella libreria, vissi un’esperienza del genere, ma moltiplicata per mille. Più proseguivo nella lettura, e più crescevano le mie aspettative, perché sembrava che lì ci fosse l’intero universo delle risposte su cui mi interrogavo da sempre. Fu piacevole quanto straniante: sentivo come se da un momento all’altro potessi trovarci qualcosa di straordinario, ma sapevo che era impossibile. C’era da ridere e da restare seri. Era questo il what if: se esistesse davvero un libro in grado di sconvolgere la vita al suo lettore, quale contenuto potrebbe avere? Ma prima ancora di trovare una risposta mi sono detto: se hai una storia, con un’idea impossibile e verosimile, allora hai un romanzo! Dovevo solo scriverlo. E in effetti, poi, qualcosa è successo. E sta ancora succedendo.

Nella vita sei un avvocato di professione, che differenza c’è tra scrivere un’arringa e la stesura un romanzo?

Ci sono grandi differenze. Il linguaggio legale ha sintassi terribile, con tanti periodi che si incassano tra loro aprendo parentesi e incisi, con fiumi di subordinate, spesso prive di soggetto, collegate da connettivi lunghissimi. Il lessico, poi, è fatto soprattutto di avverbi modali e aggettivi polisemici. E c’è quella strana ossessione per le litoti. Il lettore deve sempre districarsi in un mare di costrutti fatti in quel modo. Non v’è chi non veda, non è manifestamente infondato, l’eccezione di illegittimità non è inammissibile. È un incubo! Gadda diceva che la litote costringe il lettore a svolgere a mente una disequazione di secondo grado. O di terzo, o quarto a seconda delle negazioni che contiene. Non è proprio una lettura da raccomandare per rilassarsi la sera. È l’antitesi della letteratura creativa. Sempre Foster Wallace diceva che essere allo stesso tempo avvocato e scrittore è come fare insieme il narcotrafficante e l’agente antidroga. L’avvocato ha sempre il panico di essere frainteso, per questo si appoggia ai luoghi comuni del suo gergo: per non farsi scoprire. In fondo nel settore giuridico c’è già un testo (che è la legge) e c’è già un lettore ufficiale (che è il giudice). Quindi lui deve interpretare l’interpretazione, e cerca di farlo in punta di piedi, nel modo meno originale possibile, per non dare l’impressione di essere un usurpatore.

Il linguaggio letterario, invece, è creativo; il testo non c’è: lo realizza lo scrittore, con la collaborazione del lettore. Scrittore e lettore sono un’associazione a delinquere finalizzata alla creazione di falsi. Umberto Eco l’aveva detto bene: tra quei due c’è un patto illecito: uno fa finta di scrivere la verità, l’altro fa finta di crederci. E si divertono frodandosi a vicenda. I poeti sono strane creature, ogni volta che parlano è una truffa, cantava De Andrè (che era sia poeta che musicista, e quindi doppiamente illecito). E poi la scrittura non ha vere e proprie regole: si possono usare licenze lessicali, abolire la sintassi, invertire sequenze temporali, alterare la logica. Tutto può andare bene per rendere un’immagine con le parole. Forse la vera incompatibilità la vedrei tra la poesia e la matematica, più che tra questa e la filosofia. Solo due persone nella storia dell’umanità hanno scritto opere matematiche in forma di poesia: Omar Khayyann e Giordano Bruno. Eccezioni irripetibili. Qui, la regola è che non ci sono regole: per questo le metafore vanno continuamente aggiornate, altrimenti si sente la puzza della plastica. E si finisce per diventare come i giornalisti citati sempre da Eco in Numero Zero, imprigionati nel loro gergo di frasi stereotipate: muro contro muro, giro di vite, pugno di ferro, eccetera eccetera. Leonardo Sciascia, invece, usava i cliché per deformarli. In ogni suo saggio c’era l’assassinio di un luogo comune. Fu celebre la sua battuta sui nodi che vengono al pettine; disse: il problema è che in Italia manca il pettine. Calvino ricordava come il senso di una poesia possa essere descritto come un movimento che va dall’idea all’immagine, mentre nelle arti figurative il percorso è esattamente inverso. Ecco, se dovessi fare un paragone tra il linguaggio giuridico e quello letterario, direi che i loro discorsi hanno mire invertite, e retoriche speculari. Lo scrittore può anche giocare con i ragionamenti, ma vuole provocare un’emozione. Mentre l’avvocato potrà anche giocare le emozioni, ma vuole provocare un ragionamento.

Il protagonista è chiamato a compiere un viaggio aereo tra Bari e Bologna: l’eroe della storia esce cambiato dalla prima all’ultima pagina come in un romanzo di formazione?

La domanda tocca un punto nevralgico. Ogni romanzo è la storia di una quiete infranta, che un protagonista dovrà ripristinare. E se ci riesce, di solito, diventa un eroe. Perché grazie a lui la vicenda collettiva riconquista l’equilibrio che aveva perduto. Qualcuno ha detto che la vicenda collettiva è di solito circolare, mentre quella individuale è lineare. Il meccanismo era già stato studiato nei primi anni del Novecento da Propp nella sua Morfologia della fiaba, a proposito dei racconti popolari. Il protagonista elimina la minaccia del regno e diventa principe. Però non sempre gli va bene. Il cambio di status potrebbe anche diventare una pena. La riconquista del paradiso perduto talvolta esige il sacrificio di un messia. Gli studi di Propp si rivelarono un’autentica miniera d’oro. Cinquant’anni dopo gli strutturalisti francesi provarono ad applicare i suoi studi al romanzo, non sempre con risultati efficaci. Anche in Italia ci sono stati lavori importanti sul tema. Ricordo Gianni Rodari e la sua Grammatica della fantasia, secondo cuiil romanzo sarebbe un’allegoria dell’adolescenza: dopo aver attraversato il bosco dell’infanzia, nessuno riesce a tornare bambino. E, in effetti, anche nel mio racconto, ad un certo punto, ci sono un bosco e un bambino che lo attraversa tornandone cambiato. È una citazione, neanche troppo velata, a questo compianto autore, che oggi avrebbe compiuto cento anni. Nell’ultimo capitolo di Se una notte di inverno un viaggiatore anche Italo Calvino si interrogava su un’altra intuizione del russo: tutti i romanzi potrebbero delle variazioni sul tema di un unico racconto primordiale? Chi può dirlo. Il romanzo è comunque una reazione simbolica all’ineluttabilità dell’entropia.

 E Luca Bovino, nel corso della stesura, ha forse vissuto una sorta di catarsi?

Non lo so. Non ho mai capito bene cosa avesse voluto dire Aristotele parlando di catarsi nella sua Poetica. Ma sono in buona compagnia. Non l’ha capito praticamente nessuno. A parte qualche psicologo abituato a cospargersi miti greci sulle parti intime, come ironizzava Nabokov. Forse se non avessimo perso il secondo capitolo della Poetica, quello bruciato nell’incendio del Nome della Rosa, allora ne avremmo saputo di più. La parte rimastaci è comunque un capolavoro mirabile. L’allievo di Platone scrisse lì le regole basilari per la riuscita efficace di uno story telling, come sanno bene gli sceneggiatori di Hollywood. Io, scrivendo questo romanzo, volevo solo inseguire la parola, con l’ingenuità e il trasporto di bambino che corra verso il punto dove l’arcobaleno sembra che tocchi il suolo. Da piccolo ricordo di averlo fatto spesso, con gli amici, scorrazzando nella terra fino a crollare stremati dalla stanchezza, e dalle risate. La parola è in fondo la cerniera che unisce il mondo interiore con quello esteriore, la cultura con la natura, la realtà e il pensiero. È la parola, forse, il vero eroe della mia storia. Ma meglio non dire altro, sto già rovinando la sorpresa.

Su Francesca Ghezzani

Giornalista, addetto stampa, autrice e conduttrice di programmi televisivi e radiofonici. In passato ha collaborato con istituti in qualità di docente di comunicazione ed eventi.

Lascia un commento