Le parole si mescolano alla musica tra echi poetici e dissonanti in un rincorrersi di immagini veloci e di emozionanti descrizioni di fatti e di storie brevi con un comune denominatore: le inquietudini personali e le sfumature psicologiche dei vari personaggi coinvolti. Suites di Fine Anno (Florestano Edizioni) è il primo libro di racconti di Roberto Maggi.
Nato a Roma, laureato in Scienze Biologiche, Roberto Maggi è uno scrittore che mette il ritmo, ma anche la meditazione e la riflessione al centro delle sue opere letterarie riuscendo ad attrarre il lettore nel suo flusso creativo. Inizia a scrivere poesie fin da quando era un adolescente pubblicando la sua prima raccolta, Schegge Liquide, nel 2014 ricevendo un’attestato di merito nel Premio Internazionale Città di Cattolina (2015). Dopo varie apparizioni in antologie poetiche, nel 2015 Maggi avvia insieme al pianista Theo Allegretti il progetto Suoni di Versi, un concept che va al di là del più tradizionale “Reading concetto”. Suites di Fine Anno rappresenta un interessante passo in avanti nella maturazione di uno scrittore destinato probabilmente a sorprendere ancora il pubblico con la sua peculiarità letteraria e il suo stile moderno.
Suites di Fine Anno è un lavoro decisamente intimistico. Qual è stata la spinta che ti ha portato a scriverlo nel modo in cui lo hai fatto?
La motivazione iniziale che mi ha spronato a tentare l’impresa è stata quella di voler trascrivere degli episodi, in parte realmente accaduti, che sono stati al centro di situazioni bizzarre e stravaganti, e che avevo piacere di raccontare anche in modo spiritoso e ironico. Mi sono poi trovato di fronte a un magma di spunti incoerenti a cui dare una forma omogenea e da far rientrare sotto il contesto generale di “storie di Capodanno”. Questo, se vogliamo, è stato il pretesto: ciò che però mi premeva realmente era far trasparire l’aspetto introspettivo e psicologico che si nasconde dietro quelle vicende, far emergere una sorta di traiettoria esistenziale che viene evidenziata attraverso la narrazione in prima persona, a tratti esplicitata tramite il ricorso a un impetuoso flusso di coscienza. Potremmo dire che il modo in cui è stato poi realizzato è venuto man mano che il raccontare (e il raccontarsi) prendeva forma, definendone meglio la struttura definitiva. Se la trama riesce a far sorridere, è certamente un bene; ma se riesce a far riflettere, a far riconoscere chi legge negli stati d’animo che vengono lì esternati, allora vuol dire che ho colpito nel segno.
Tu sei scrittore, poeta, naturalista e biologo. Come fai a conciliare le diverse attività e da quale sei partito inizialmente?
Apparentemente dedicarsi ad attività che sembrano così distanti tra loro può risultare difficilmente conciliabile, ma a ben vedere esse sono pur sempre frutto delle passioni che in determinati momenti della vita dominano i nostri interessi. In realtà per molto tempo le attività professionali legate al mondo della scienza (in particolare quelle relative alla sfera ecologica) sono andate di pari passo a quelle della scrittura, ma senza interagire tra loro. Anzi, direi che le tematiche afferenti alla scrittura volutamente esulavano dal contesto professionale, come per dare voce a un altro io, quello più profondo e intimista: la voce del poeta insomma. Proprio la poesia è stata la prima forma di scrittura in cui mi sono cimentato, in esperimenti che risalgono ai primi anni della scuola superiore. Essa mi ha accompagnato fino ad oggi, pur lasciando spazio anche all’espressione creativa in prosa. E negli ultimi tempi tentando di interconnettere i due rami principali della mia vita, se è vero che nei componimenti più recenti il riferimento al mondo della natura è sempre più presente. Le vie del poeta, dello scrittore, del naturalista e del biologo vanno sempre più convergendo.
Quanto ci hai messo a scrivere Suites di fine anno e a chi ne consiglieresti la lettura?
Definire la tempistica non è cosa semplice, io steso ho preso il conto di quanto ci è voluto. È stato un progetto che ha conosciuto varie fasi, nelle quali si sono succeduti momenti di intensa scrittura a lunghe pause di “riflessione”. Per chi non può dedicarsi alla scrittura a tempo pieno è abbastanza normale procedere a strattoni, mancando quello che è l’esercizio costante e quotidiano di fondo (citando il grande Guccini “io scrivo come posso, quando posso..”). Cosicché il tempo totale non riesco a calcolarlo, ma sicuramente è stato piuttosto lungo, si parla di qualche anno. Oltre che per le ragioni appena dette, anche per una lunga e ossessiva fase di correzione, in virtù della quale il testo veniva continuamente ritoccato. D’altronde, partendo dall’idea di base di accostare la narrazione ai movimenti di una composizione musicale, la scelta di differenziare la ritmica dei singoli racconti si è venuta perfezionando nel tempo. Così come l’utilizzo di una punteggiatura non tradizionale ha richiesto un’opera meticolosa di stesura e continua revisione, al di là di ogni mia aspettativa. E meno male che si tratta di un’opera relativamente breve, altrimenti ci sarebbero volute decadi!
Per quanto riguarda il pubblico a cui il mio lavoro potrebbe rivolgersi, diciamo che ne consiglierei la lettura a tutti coloro che non si fermano al lato godibile che esso offre, ma amano andare oltre l’aspetto patinato delle apparenze, scavare nel profondo, trovare rispondenze, assaporare le sottigliezze psicologiche. Ma, soprattutto, lo consiglierei a chi ama la musica che, come una linfa vitale, nutre il libro con i numerosi rimandi a leggendari gruppi o artisti del rock, soprattutto dell’area progressive. Sono sicuro che per gli amanti di questo genere (ma non solo), i punti di interesse non mancheranno.
Hai presentato Suites di fine anno qualche tempo fa a Roma. Come è andato l’evento e come hanno reagito i tuoi ospiti?
Roma è stata teatro di varie presentazioni, la prima delle quali risale ad aprile 2019, a pochi giorni dall’uscita del libro. Soprattutto in quella occasione (al Teatro Arciliuto, un bellissimo locale del 1400), la reazione dei partecipanti, assai numerosi, è stata entusiasta, non solo grazie alla qualità degli interventi dei critici intervenuti (Sabino Caronia e Andrea Mariotti) ma anche per la riuscita combinazione tra letture e musica. Alcuni estratti del libro, infatti, sono stati da me letti con l’accompagnamento al pianoforte del musicista e compositore Theo Allegretti, che ha magistralmente arrangiato e reinterpretato alcuni brani citati nel testo, originariamente composti da artisti come Van der Graaf Generator, King Crimson, The Doors, David Sylvian. L’intenso connubio parola-musica ha contribuito a creare un’atmosfera suggestiva, in una sorta di scambio emotivo tra astanti e interpreti. D’altro canto un’esperienza non nuova, visto che con lo stesso musicista, a partire dal 2015, portiamo avanti un progetto che unisce poesia e musica, una performance che per la sua peculiare natura improvvisativa, supera la tradizionale formula del reading-concerto. Un sodalizio consolidato, quindi.
Fortunatamente il successo di quell’evento si è ripetuto anche in altre presentazioni, come quella recentissima al Club 55 di Roma, ma non solo nel contesto romano: ottimi riscontri si sono avuti in manifestazioni importati quali il festival di Bisceglie e la Fiera del libro di Ostia. Pur mancando in queste ultime l’elemento di accompagnamento musicale, sono state comunque molto ben apprezzate.
Al momento stai già lavorando ad un nuovo libro o sei in pausa?
In questo periodo, a parte il mio lavoro, sono particolarmente impegnato con le attività di promozione del libro; ma, nonostante ciò, non mi sono fermato, e ho da poco finito di sistemare una nuova raccolta di poesie. Una silloge che, analogamente alla precedente pubblicata nel 2014 (“Schegge liquide” edito da Aletti), contiene al suo interno una serie di componimenti vecchi e nuovi, e che quindi vuole essere una sorta di testimonianza sensibile del mio vissuto nel corso degli anni. Ora non resta che proporla agli editori del settore. Inoltre sto lavorando a un progetto che ho in mente già da tempo e che inizialmente avevo pensato come a una sceneggiatura. Ma, come spesso succede, la scrittura prende vie impreviste e autonome, e alla fine dovrebbe uscirne un romanzo: una novità e una sfida che mi stimola e, per certi versi, mi impensierisce. Vedremo dove mi porterà. Temo che i tempi non saranno brevi. Comunque, in entrambi i casi, l’aspetto musicale sarà in ogni caso pregnante. Di questa peculiarità non posso proprio fare a meno…
Hai scelto personalmente la copertina di Suites di fine anno e in caso contrario chi se ne è occupato?
La copertina è stata voluta e realizzata da me. La fotografia è sempre stata una delle mie passioni, e ci tenevo particolarmente che il contenuto del libro fosse rappresentato da un mio scatto. L’idea di fotografare in notturna un portone semiaperto che lascia intravedere una figura femminile indefinita sullo sfondo è stata quella che mi è venuta in mente fin dall’inizio e che mi sono ostinato a perseguire attraverso una lunga serie di prove. L’immagine vuole rendere un’atmosfera sospesa, intrisa di mistero, una sorta di ansia sottesa che ti coglie nell’entrare in un luogo dove non si sa bene cosa ti attende. Considerato il lungo lavoro che mi è costato realizzarla, spero di esserci riuscito. Una cosa curiosa che posso raccontare al riguardo è che dopo aver speso tanto tempo alla ricerca del “luogo di ripresa” adatto, fotografando tanti portoni della capitale, alla fine quello giusto è venuto casualmente, in un paesino delle Marche dove sono capitato. Come spesso accade, sono le occorrenze impreviste a venirci incontro: e così, magicamente, è la soluzione casuale a trovare noi e non viceversa.
Quali sono le tue principali ambizioni come scrittore?
Una domanda interessante e per certi versi imbarazzante. Non mi sono mai posto il problema di raggiungere degli obiettivi di notorietà, di voler “sfondare”, per usare un’espressione popolana. Sono consapevole dei miei limiti e di quanto sia difficile emergere in un mondo dove sono moltissimi gli scrittori, e molti quelli bravi. Tanto più che per me non si tratta della professione principale. Certo che sta divenendo un’occupazione sempre più di rilievo, ma non tale da diventare un cruccio. Prova ne è che per tanti anni ciò che scrivevo è rimasto chiuso nei cassetti, pubblicare non rientrava tra i miei progetti, scrivevo piuttosto per me stesso. Mi sono sempre detto, e continuo a ripeterlo anche dopo l’uscita del mio primo libro, che se ciò che scrivo possa anche solo in minima misura toccare il sensibile sentire di un qualche lettore, questo sarebbe già un grande successo. L’ambizione, se di ambizione si può parlare, è semmai di produrre qualcosa di interessante, di non banale, di mio. Aderire a correnti letterarie “mainstream”, magari confluendo a generi più di moda e accattivanti, esula dai miei interessi. Ma non voglio neanche peccare di eccessiva modestia. Sapere che ciò che scrivi piaccia, abbia un suo intrinseco valore, trovi un riscontro, fa sempre molto, molto piacere.
Quanto c’è di te nel protagonista del tuo libro?
C’è molto, è inutile negarlo. La voce narrante di chi vive quelle storie è un “io” che molto si assimila a me, al mio modo di pensare e di agire; e le riflessioni, i dubbi, le incertezze che si annidano nella sua mente sono in fondo quelle che popolano la mia vita. Con questo non intendo dire che coincidano: in parte il protagonista ha una propria personalità, una sua indipendenza che lo svincola dal mio essere, che genera un dualismo. Come nella migliore tradizione letteraria, un alter ego che acquisisce una sua propria natura e che, per gioco e per omaggio, ho voluto ricordare nell’epigrafe di Peter Gabriel. Ma resta il fatto che questo lavoro mi ha dato l’opportunità di dar voce alle emozioni profonde, di mettermi coraggiosamente a nudo, anche di fare salutare autoironia. Non a caso ricorrendo in modo sistematico alla tecnica del soliloquio. Lo dice molto bene Andrea Mariotti nella sua recensione critica: “l’io narrante delle sue Suites è a tutti gli effetti e nel contempo un io narrato -in relazione col mondo, tutt’altro che solipsistico e asfittico. C’è modo e modo di dire “io”, in una narrazione dei nostri tempi; e il nostro autore, apprezzabilmente, gioca da subito a carte scoperte, facendo coincidere il ritmo in crescendo del suo raccontare -da questo primo movimento a quelli successivi del libro- con lo spirito in fondo saggio di resistenza del protagonista al disagio esistenziale, accettando la compromissione con la mondanità festaiola di fine anno” (dal blog di Andrea Mariotti – giugno 2019).
Quali sono gli scrittori ai quali ti sei ispirato quando hai intrapreso la tua carriera di scrittore?
La lista di questi scrittori rischierebbe di essere assai lunga, ma possiamo tracciare dei riferimenti principali. Nel libro vengono citati vari autori che in un modo o nell’altro sono stati delle pietre miliari nel mio percorso di apprendimento: Dostoevskij, Kafka, Gogol, Rimbaud, Lorca, Salinas. Diciamo che in linea generale la letteratura russa classica dell’ottocento mi ha fortemente influenzato, forse anche perché è stata la prima con cui mi sono confrontato: grandi geni che hanno creato capolavori assoluti. Credo sia facilmente intuibile, leggendo il libro, notare come l’aspetto introspettivo e di scavo interiore sia obiettivamente riconducibile a questi grandi del passato, soprattutto il Dostoevskij di “Memorie del sottosuolo”. Discorso a parte meritano invece i poeti chiamati in causa che, specialmente nel caso di Rimbaud, hanno rappresentato una sorta di ossessione giovanile, e di cui non si potevano non menzionare dei passaggi a mio avviso memorabili. Ho volutamente tralasciato di nominare, per evitare un uso eccessivo delle citazioni che rischiavano di diventare degli elementi di sfoggio e non, come dovrebbero, degli atti di riconoscenza, altri “colossi” per cui nutro grande ammirazione: uno su tutti, Fernando Pessoa, le cui opere (il “Libro dell’inquietudine” e le Poesie su tutte) mi hanno catturato per anni. Tanti altri sarebbero da ricordare, ma davvero rischierei di fare solo un didascalico elenco di nomi. Sono certo che le menti acute di Borges, Saramago, Orwell, Kerouac, Proust e quelle di tanti altri ancora, non si offenderanno.
Per concludere se Suites di fine anno fosse un disco e non libro che disco sarebbe?
Questo sì che è un quesito impegnativo e al contempo interessante. Io me lo immagino come un disco d’altri tempi, quelli gloriosi del rock progressive anni settanta, dove i brani erano molto dilatati e contraddistinti da diversi movimenti al proprio interno: delle Suites appunto. Ecco: i cinque movimenti del libro ben si conformerebbero a questa raffigurazione. Cinque brani che avrebbero un crescente andamento ritmico, intervallati da soluzioni più pausate e delicate, a ricalcare il percorso altalenante delle vicende, dei pensieri e delle sfumature emotive che si succedono nei racconti. Del resto, non erano i testi dei gruppi di quegli anni delle vere e proprie opere letterarie o, citando quanto scritto nel primo movimento del libro (Allemanda), dei trattati di psicologia? Bisognerebbe riportare in auge quella elevatissima qualità espressiva, e se questo “romanzo di racconti” (come talvolta viene curiosamente definito) potesse contribuirvi, sia pure in modo fantastico, sarebbe come vivere un sogno. Per non parlare delle copertine: quanti di quei frontespizi, con il grande formato dei 33 giri, inebriavano la vista! Delle vere e proprie opere d’arte. E ben contento sarei, nell’immaginare l’ipotetica copertina del “disco Suite”, di rinunciare a una mia foto a favore di una creazione ideata dalla mano fantasiosa di uno di quegli illustratori, una cover alla Paul Whitehead o Roger Dean, per intenderci. Ovviamente nelle dimensioni ben visibili di un intramontabile vinile.