Il romanzo di esordio di Romolo Bianco
Romolo Bianco è un attore e cantante particolarmente incline al lavoro di recupero delle canzoni classiche napoletane, ha infatti curato un’ importante rubrica sul quotidiano Roma dedicando lo spazio proprio ai brani classici partenopei. Nel 2013 registra Always by Napoli una raccolta di alcune canzoni più antiche della tradizione napoletana, tra cui Malafemmena, Maruzzella, Guaglione, ‘A Casciaforte.
Romolo Bianco ha voluto cimentarsi anche in una nuova esperienza e con Iodipiù, il suo primo romanzo, dimostra altresì le sue doti di scrittore. La prefazione è affidata a Peppe Lanzetta, con il quale Bianco, ha iniziato la collaborazione nel 2005, portando in scena alcune rappresentazioni teatrali tra cui: Ricordo di Domenico Rea, Medea Napoli, L’Opera di periferia e molti altri ancora.
Dalla nota introduttiva di Lanzetta estrapoliamo alcuni significativi passaggi che danno la giusta impronta: Nel lungo racconto Iodipiù scorre un fiume disperato eppure vitale. Un fiume di tenerezze mai riposte, di amori contrastati, di trasgressioni all’amatriciana, di polpette da ingurgitare aspettando un sonno salvifico eppure assassino.Romolo Bianco, figlio dell’hinterland napoletano, muove i suoi personaggi con una delicatezza che sembra farli uscire dalla pagina, eppure essi stessi forse sono già sepolti sotto la cenere e i lapilli dei Vesuvi della vita. Ragazze, sogni, promesse, noie, vite liquide e liquidate dalla vita stessa, caldo su caldo e sogni di vacanze naufragate nella spazzatura dell’esistenza.
Edito da Tullio Pironti che tra le premesse di copertina sottolinea lo stile narrativo che sembra “scritto come un film”, quasi come un copione da cui estrapolare la trama di una pellicola.
Di seguito un sunto della sinossi:
Periferia orientale di Napoli, una famiglia piccolo borghese, una come tante. Don Mario vende tappeti al mercato. Si alza che fuori è notte e all’alba è già in giro, polvere e sudore, mille pensieri e altrettanti caffè. Don Mario non parla mai, è un marito e un padre assente, tutto silenzio e rughe. Finché una mattina incrocia gli occhi di Berta, una trans della Ferrovia; un incontro del tutto casuale, ma è così, del resto, che ti frega la vita: ci si guarda, si inizia a parlare e ci si innamora. Don Mario a casa però ha Lucia che lo aspetta; l’ha messa incinta che era una studentessa, quella ragazza che sognava l’aristocrazia napoletana, e che poi un giorno si è risvegliata che viveva a Casoria e aveva due figlie già grandi.
Fortuna che ci sono loro: Marta, l’orgoglio di mammà, brillante laureanda in Medicina, e Anna, che invece la scuola l’ha lasciata anzitempo, e adesso sogna solo di sposare il suo Lino, uno senza arte né parte, null’altro da offrire se non il suo cuore e il suo amore.
Anna piange spesso, tra pile di piatti da lavare e fornelli da sgrassare, quindi stira, mette in ordine e rassetta, in un giorno che è sempre uguale. Fino a quando una scoperta non arriverà a capovolgere un mondo fatto di colori sbiaditi – grigio a perdita d’occhio, grigio senza soluzione di continuità – e odori tristi – quello acre degli pneumatici che ardono ai margini delle statali, accanto al puzzo di piscio dei vicoli.
A far da sfondo la calura insopportabile di certe estati a Napoli, il sapore metallico di notti lunghissime in cui tutto può accadere, e inconsapevoli burattini dal destino già segnato, cui non è concesso un altro giro di giostra – “Dacci il nostro orrore quotidiano, amen”.