I libri di Piero d’Alfonso
I libri di Piero d’Alfonso

Piero d’Alfonso: ecco i miei testi

Incontriamo oggi per la nostra rubrica “Libri e Scrittori“, Piero d’Alfonso (Milano, 1941), architetto, insegnante, esperto di formazione e studioso di Scienze cognitive in ambito pedagogico, dopo la pubblicazione negli anni di vari saggi e del romanzo d’esordio La cecità del vicolo (La Rondine, 2018), è tornato in libreria con Tue membra (GM libri, 2022), nonché il racconto biografico Grigi – Enzo Nocera (1944-1993) (Robin, 2022).

Di seguito l’intervista esclusiva a Piero d’Alfonso.

Benvenuto su La Gazzetta dello Spettacolo, Piero d’Alfonso. Partiamo dai titoli delle sue opere: li ha scelti lei e, se sì, come?

Tue membra non è il titolo originale, ma sì, ho scelto io anche questo. L’originale avrebbe dovuto essere Getsemani. Come del resto era nella precedente stampa da me promossa con l’edizione del Faro.

Perché Getsemani? Perché l’opera rivolgeva già e rivolge ancora i due piani, il descrittivo e l’introspettivo, alla città che chiamo “la mia Milano”. E questa rappresento come una città intrisa di dolore. Immagina una tela, una buona tela, resistente, ma: intrisa di dolore. Evidente che il riferimento va a qualcosa di universale della nostra cultura, ed ecco appare l’Orto degli Ulivi. In cui Gesù sudò sangue. Ma ce la si fa a ricostruire un motivo per cui Gesù ha sudato sangue? Il romanzo azzarda una risposta, audace senz’altro, poetica, a mio parere non lontana dal vero. L’uomo Dio, questo immaginario assoluto del nostro Occidente, ha visto l’insieme del male, il male dei secoli, i modi con cui esso ha inondato la terra di dolore e se ne è assunto sulle spalle il peso. Terribile disperante sacrificio, ma insieme visione drammatica della storia e del mondo. L’immagine che volevo formare, e che comunque rimane nella nuova edizione, era da una parte la città, intesa come luogo in cui le cose avvengono, e dall’altra il Getsemani, stanza di ripensamento e di preghiera dove si riassumono le cose e appare il vero dentro esse. Le conseguenze. Il dolore che intride la città.

Il secondo titolo Tue membra è una citazione e infatti riporta una sorta di conversazione a tu per tu con Milano, nella quale rivolgo un rimprovero alla mia città, cioè indico come essa abbia perduto, per la fretta di fare, consapevolezza di essere. Un unico, un’identità distribuita in tante membra che sono della città le parti. E come si consenta che l’una dall’altra le parti si separino senza ancora essersi accorti del tutto, perdendo così la cognizione del dolore che scorre in quell’essere unitario che è la città.

Con questo nuovo titolo emerge un altro tratto essenziale dell’opera Tue membra e riguarda le risposte che si devono comunque ai giovani e agli adolescenti, individui toccati da periodi della vita sospesi in un momento tanto delicato come è il passaggio, in cui, dice il romanzo, l’individuo crisalide, non più bruco non ancora farfalla, rischia di mai approdare alla bellezza e alla grazia ma miseramente sfarsi in un nulla privo di risposte. Privo di quei perché che rivolge alla città volendo sapere volendo capire.

Sono convinto dell’importanza di questo scritto proprio per la novità che nasconde e contiene: questo riferimento esplosivo e nient’affatto prevedibile tra Milano e Getsemani.

La città sotto i colpi aggressivi del male, una volta accusato il dolore che ne deriva, si apparecchia a sopportarlo; la stessa città, di fronte a tutto ciò, viene descritta come in grado di costruire una risposta: il nido!
In faccia a questa immagine la Passione del Getsemani. Viene descritta come il vertice della consapevolezza, quando il culmine dell’intelletto umano, l’uomo Dio, ricostruisce in una personale complessiva visione storica il tutto della sofferenza veicolata nel dolore e lo assume su di sé.

Qual è il flusso di pensiero contenuto nell’opera Tue membra Piero d’Alfonso?

La locuzione ‘flusso di pensiero’ esprime un procedimento di scrittura che cerca di riprodurre nel modo più verosimile lo scorrere dei pensieri nella mente. Vedi l’Ulisse o la Mrs. Dalloway. Difficile impresa! Perché difficile è inseguire un tale fluire. Il fatto è che semplicemente il pensiero è rapida saetta e insieme vertigine di mutamento. Stai concentrandoti su qualcosa ma la testa se ne va chissà dove e prima che te ne accorga pensi ad altro. Caotico girovagare e mirabile sconcerto! Che tu ancori volutamente a punti fissi attraverso i quali, legato all’albero della nave come Ulisse, assisti al canto delle sirene del tuo cervello. In tale subbuglio, che regole culturali sviluppate nel tempo si sforzano di imbrigliare, emergono immagini disordinate e inutili, di nessun conto nelle quali ci si sperde, ma capita di raggiungere non sai come, non sapresti dire provenendo da dove, stanze improbabili e fantastiche. Che non spieghi se non con parole astruse come invenzione intuizione scoperta. Sono voli, doni del pensiero. Che poi rielaborando e rimuginandoci perché no, fissi in idea compiuta e ne fai modelli teorie elaborazioni, ben sapendo che la loro origine è lì, essi provengono da quella stanza, da quella invenzione.

Ho dedicato gran parte della mia vita e dei miei studi in ambito cognitivo intorno a questo tema, al cosiddetto pensiero spontaneo, al ragionamento ingenuo, alla fisica non colta. Ne ho fatto ricerca e sono giunto alla convinzione che, volendo ancorare fenomeni caotici di tale grandezza a dei paletti consistenti, ci si possa tenere a due sistemi: uno è la rappresentazione delle cose per come sono, l’altro delle cose per come avvengono. Con il primo sistema lo scritto descrive e apporta al nome di una cosa i dettagli dell’evidenza dell’apparire e delle proprietà con cui essa si distingue dal resto, con il secondo lo scritto racconta il contesto della cosa e l’accadere. Di essa e intorno a essa.

Nei miei di scritti, e Tue membra è per ora il più esteso, i due sistemi formano trama e ordito di un tessuto sulla base del quale consento scorrano liberamente le immagini che mi si formano dentro, ivi compresi ricordi, letture e saperi maturi. L’effetto è un efficace persuasivo straniamento che compendia in nitide immagini il senso della narrazione e che rende una per una le singole parole seducenti e speciali.
Tutto qui.

Piero d’Alfonso quale messaggio viene veicolato attraverso il riferimento al Getsemani?

Non viene veicolato un messaggio ma piuttosto la restituzione fantasmatica della comprensione del Getsemani entro l’universale del dolore del mondo. Una visione poetica! Nel libro essa viene esposta in un elenco, in una specie di corale a più voci sfalsate come nelle fughe di Bach (“voci suoni, ecc.” e si conclude con due parole sospese: “sorrisi leggenda”).

Per opposto Tue membra veicola anche altro e sono i muri e la gente. Questi non vanno dimenticati perché la complessità di membra che la parola richiama fa proprio riferimento al loro essere parti del tutto. E così la città. Ecco la passeggiata pomeridiana dopo l’orario di lavoro dei quattro dirigenti in corso Matteotti, la Scala come tempio musicale e come piazza della città, l’ippodromo di San Siro con il suo mitico cavallo Ribot e con le scommesse che partono dalle corse e si diffondono nelle viuzze del centro, il treno in corsa per Milano bombardato dagli aerei, Vivì distrutta dal cancro delle ossa che prega di morire a casa, i suoi gioielli nel buio della sera. Ecco le piaghe di Vivì e la riflessione sulla decomposizione degli organismi secondo il pensiero del filosofo Teilhard de Chardin. Il cardinal Schuster che, impartendo la prima comunione ai piccoli del suo collegio arcivescovile, pronuncia una memorabile omelia. La Fiera di Milano e la folla dei prodotti nei padiglioni delle ditte mischiata con la folla dei visitatori. Il Commendatore, la staffetta partigiana, la scrittrice al bar alle prese con le patatine, la poetessa intervistata al Museo della Scienza. Ecco il fratello con la sua riflessione sull’adolescenza. Ciascuno un appunto per comporre l’idea di città.

Che vertiginosamente cresce. Che si ricostruisce dalle macerie della guerra con una fretta travolgente che trascina cose e persone in un vortice irresistibile. Lasciando indietro chi non ce la fa. Senza ragione. Senza spiegazione ai figli di ciò che si va facendo. Senza portare loro le motivazioni che pure chiedono per capire.

Se ne traccia, ultimo segnale, il silenzio colpevole della città.

Vorrei soffermarmi sul concetto di dolore: infliggere, subire, adattarsi, sopportare. La generazione di oggi differisce in questo da quella di un tempo Piero d’Alfonso?

Sia chiaro che non mi riferisco a qualcosa di storico, ma alla ricostruzione dell’evento come scaturisce dalla fantasia popolare, incrostato da depositi di millenni che poco hanno a vedere con il lavoro paziente e rigoroso di chi si basa sulle fonti e sui documenti.  È l’archetipo della Passione di Cristo. Quell’archetipo dialoga non mediatamente con la città, parla diretto al ciascuno di tutti, alla gente, a un sentimento profondo per il quale uno oltre che essere sé stesso appartiene ai suoi.

L’immagine proposta nel libro è l’immensità del dolore che la vita e il destino degli uomini raccolgono nell’arco del tempo in cui sono al mondo. È il sentimento del male quando ci cade addosso e ne accusiamo il colpo. Che ci fa soffrire. Per uno che patisce il male sembrerebbe ce ne sia uno diverso che lo determina, e si è portati a dividere la realtà tra chi fa e chi subisce, ma il romanzo osserva che in realtà ciascuno è una volta causa e un’altra volta effetto del male. Non lo stesso ma del pari intenso, del pari capace di dolore. Dunque siamo tutti agenti e pazienti di dolore e ciascuno se ne carica addosso un peso adatto alla propria capacità di subire. Vi si adatta e lo supporta. Questo stato di tutti e la conseguente tenuta della sofferenza è l’arma con la quale cresce la città e trasforma il male ricevuto in accoglienza per la propria gente.
La generazione di oggi mi sembra scontenta, ne avverto, impotente e per molti versi inespressa, una insoddisfazione profonda. Non mi sembra che differisca molto da quella del mio tempo, se non per l’acuirsi improvvido del silenzio di allora, dell’indifferenza dei responsabili. Non mi sembra si possa giustificare la fretta con cui si decideva, nel ricostruire, sulle sorti delle nuove generazioni. Sul loro destino. Senza spiegare. Senza aiutare i giovani a capire.

Passiamo a Grigi. Quanti sono questi grigi e cosa rappresentano Piero d’Alfonso?

I grigi sono quelli delle stampe in bianco e nero di Enzo Nocera, fotografo milanese del secolo scorso. Lo scritto è un ricordo di questo mio cugino amatissimo e il riferimento alla straordinaria ricchezza della sua camera oscura.

Enzo passava intere notti chiuso, al buio, alla ricerca perfino insensata della migliore stampa di un singolo scatto. Nel racconto dedico del tempo a descrivere lui affaccendato intorno all’ingranditore e alle vaschette, le manovre misteriose e affascinanti con le quali contornava la restituzione dell’immagine. Un balletto!, dico dei suoi movimenti, assecondate le mani con piccoli apparecchi costruiti da lui stesso per la schermatura di campi del negativo nell’intento di dare migliore luce al resto. Mi faceva capire che con un tale agire sulla luce permetteva al negativo di differenziare i chiari e gli scuri dell’immagine e di essa sarebbero rimasti impressi un numero di grigi sempre più elevato.

Un giorno mi disse che, pur essendo capace di distinguere cento duecento grigi diversi, non era ancora soddisfatto, voleva arrivare a mille. E andò da uno scultore giapponese “a scuola di grigi”. Me lo disse tra un’amabile chiacchierata davanti a una birra e una passeggiata lungo le stradine di Brera.

La sapienza di reporter di Enzo Nocera fu apprezzata da riviste internazionali come Camera e da grandi imprese come Pirelli, che gli aprirono le porte delle fabbriche per documentare il lavoro degli uomini e delle macchine. Documentò anche una quantità incredibile di attività umane e di modi di vita e ne resta traccia presso il copioso fondo Nocera al Museo della Fotografia Contemporanea di Villa Ghirlanda a Cinisello.
Più di cinquantamila opere tra negativi in bianco e nero, diapositive e stampe (quelle in bianco e nero tutte stampate personalmente). Tra la serie di reportage il più significativo è costituito dalle foto del Castellazzo che gli fruttarono il premio Fotoreporter e furono esposte in tutto il mondo.

Il racconto Grigi però non rappresenta la figura di questo artista solo secondo il taglio della sua arte, della sua professione, ma in un modo più ricco e vivace. Se vogliamo Enzo ha avuto un privato allegro e vario, curava amici, tanti, come me e Tomshinsky, non disprezzava un buon calice di vino e si fabbricava degli stupendi flauti con tubi di bambù che poi suonava molto bene. Andava camminando e dormendo per i boschi abbandonati del Tigullio alla ricerca di sentieri persi e di avventurose strade collinari.

Ci fu un secondo periodo della sua storia in cui, ridotto il tempo del plein air, si dedicò prevalentemente alla foto da studio. Disegnò personalmente mirabili fondali sia per i grigi e sia per i colori e ne nacquero serie di ritratti che hanno illustrato Brera, l’idea di donna, il passaggio del tempo dei figli in fianco alla madre e al padre. Gente di Brera, Madri MaDonne, Dedicato sono altrettanti titoli di mostre che la Galleria Il Diaframma di Lanfranco Colombo, suo estimatore e vero amico, presentò nel giusto tempo agli appassionati di Brera.  

Cosa ci racconta di Laudie?

La mostra Il Castellazzo fu subito esposta a Milano e andò in giro per il mondo riscuotendo stima dai colleghi e dal pubblico. Camera, la famosa rivista svizzera, dedicò uno spazio davvero ampio agli undici scatti che Enzo presentò al Circolo della Stampa in occasione del Concorso Fotoreporter in cui fu premiato. Uno di essi era la foto di Laudie, sua figlia, seduta nel bel mezzo delle rovine della fabbrica di laterizi dove insieme ci eravamo recati per ritrarre il posto. Una bimba di tre, quattro anni, spaurita dal senso di mistero e di annientamento del sito, ferma come fosse una statua. A vederlo, il suo silenzio è così vibrante da dare al luogo una diversità dal consueto che non si crederebbe. Così, quando si passò alla pubblicazione per un libro di Enzo edito da Campanotto, proposi di farne una didascalia più lunga del solito che intitolai La statua del Castellazzo. Ed è rimasta tra i miei scritti brevi uno dei significativi. Merita scorrervi sopra ancora adesso.

Laudie è oggi una stupenda giovane architetto, esercita la libera professione, si dedica anche lei alla fotografia e coltiva con passione memoria delle sue origini e delle tradizioni svedesi.

In chiusura Piero d’Alfonso, le va di presentarci brevemente anche l’altra sua opera dal titolo La cecità del vicolo?

La cecità del vicolo è un breve romanzo che ha contenuti meritevoli di un discorso più diffuso, a sé. Per brevità posso tracciare un elenco rapido dei temi che esso tratta. Uno, quasi soggiacente, è il tema della scuola e dell’educazione dei giovani. Infatti la parte principale si sviluppa dentro un college di Oxford nel quale la protagonista Alissa è cuoca e Carlo, suo marito, lasciata la ditta di famiglia per ricongiungersi a lei, si offre come maggiordomo. In questa scuola un professore, Pickwick, e i suoi studenti accompagnano la peripezia del maggiordomo utilizzando il suo dramma per un interessante ‘studio di caso’. Il dramma di cui si tratta è il secondo grande tema del libro. Tema principale se vogliamo. In esso si scopre che la madre di Carlo, Ljuda, morta da gran tempo in circostanze mai spiegate, è sepolta nella tomba di famiglia del padre, ma non secondo la prassi consueta per mancanza di autorizzazione da parte delle autorità. E qui si snoda una peripezia che val la pena di scoprire come in un giallo, attraverso il ritrovamento di una fitta corrispondenza d’amore tra i due genitori del maggiordomo.

Il terzo tema – mai esplicitato, che scorre però lungo tutto il fluire della narrazione – è la diversità degli uomini, ognuno dei quali porta un contributo al bene come al male degli altri a cui si lega, e che ama. Il Mediterraneo opposto al nord europeo si può considerare la sintesi di tutte le diversità che vengono presentate. Ma anche i morti opposti ai vivi presentano tracce da inseguire pazientemente, così come le cose rappresentate dalle porcellane che una festa di apertura dell’anno accademico trasformano in spettacolo con attori vivi e ballerini. E come la lettura del dolore d’amore vissuto attraverso il canto di Violetta nella Traviata cui assistono i due sposi genitori di Carlo.

Su Francesca Ghezzani

Giornalista, addetto stampa, autrice e conduttrice di programmi televisivi e radiofonici. In passato ha collaborato con istituti in qualità di docente di comunicazione ed eventi.

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