Blue Jasmine, questo film del 2013 ha visto, e a buon titolo, assegnare l’Oscar come miglior attrice protagonista a Cate Blanchett, che si cala molto bene nel ruolo di Jasmine, una nevrotica arrampicatrice sociale la quale,a spese di un’altra donna, meno giovane di lei, riesce a conquistare il cuore di un simpatico faccendiere (Alec Baldwin) e –con esso- il cuore dell’upper class newyorkese, di cui diventa l’indiscussa regina di stile. Almeno fino a quando il castello le crolla addosso, gli anni Novanta si trasformano negli anni della Green economy prima e della recessione poi.
La sceneggiatura e la regia sono di Woody Allen, il quale fa ricorso all’uso del flashback per portare lo spettatore nella storia e lo fa con la sapienza di chi è avvezzo a giocare con tali strumenti riuscendo, pertanto, a non annoiarlo; accanto a Jasmine e alla sua vicenda si intrecciano le storie di Ginger (Sally Hawkins) e di tutta la piccola corte dei miracoli che ruota intorno ai disastri affettivi della vita di queste due sorelle che non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra: non solo il confronto tra le diverse way of life, ma due filosofie differenti di vedere il mondo. Non c’è contrapposizione tra i personaggi, se non quella che da sempre impone la società americana; Ginger non è l’alter ego buono della sorella, Cenerentola non c’è in questo film, se non come sparuta controfigura di Jasmine che, a dispetto della rovinosa caduta, non si arrende e ricomincia a studiare per inseguire un sogno americano che ha perso gran parte del suo antico splendore. Fatto sta che si ride pochissimo, lo spettatore viene condotto bene nella vicenda e vi partecipa emotivamente; anche l’ironia, ultima speme, sembra essere fuggita dal soggetto.
Chi ha visto “Blue Jasmine” si trova a fare i conti con una storia talmente ben scritta da essere verosimile e assolutamente ben girata ma altrettanto deludente se si pensa agli ultimi films di Woody Allen: l’ironia di “Midnight in Paris”, la leggerezza di un sorriso, la capacità di gestire anche un finale che non corrisponde all’happy end che il pubblico cerca, qui è totalmente assente. Woody Allen è cresciuto, è in una fase di ripiego su se stesso, le brutture della vita lo hanno evidentemente segnato; oppure si tratta di uno dei suoi soliti colpi di coda, ai quali i suoi ammiratori son ben avvezzi, sapendolo capace di passare da un registro narrativo all’altro, alternando commedia e dramma, politica e thriller durante una carriera, peraltro, pluripremiata e che deve buona parte del suo successo al mercato europeo.
Al pubblico sovrano spetta come sempre l’ultima parola, magari dopo aver visto “Fading Gigolò” avremo tutti le idee più chiare.