In scena al Teatro Acacia, Bufale e Liune della compagnia NEST affascina e cattura il pubblico, ancorandolo alla poltrona fino all’ultimo minuto della rappresentazione.
Con la regia di Giuseppe Miale di Mauro e l’adattamento di Enrico Ianniello, il testo di Pau Mirò si sposta dal quartiere Raval di Barcellona alla periferia est di Napoli per raccontare le vicende di una famiglia, proprietaria di una lavanderia, che anni prima ha visto la sua armonia spezzarsi per la scomparsa del figlio Max.
Bufale e Liune nasce come adattamento della trilogia di Pau Mirò, La Trilogia degli Animali (Bufale, Liùne e Giraffe) che Enrico Ianniello ha rielaborato in un unico testo: sulla scena troviamo l’azione di Liùne, con la voce narrante di Adriano Pantaleo che racconta, in forma di monologo, alcuni antefatti contenuti in Bufale. Ed è proprio dalla sua voce che apprendiamo della scomparsa di Max –“lo hanno rapito i leoni e non tornerà mai più” dirà il padre – e delle conseguenze che questo avvenimento ha sui restanti membri della famiglia.
La figlia Sara (Alessandra Mantice), che avrebbe dovuto badare a Max, resta paralizzata dal senso di colpa, sua madre (Alessandra Borgia) baratta la chiesa con il bingo e il padre (Stefano Meglio) diventa un’ombra che si muove tra le lavatrici della lavanderia, una di quelle “come non ce ne sono più oggi”. E tutto prosegue così, per dieci lunghi anni, finché una notte, un ragazzo che non è del quartiere, con la sua camicia insanguinata, non fa irruzione nel loro piccolo e miserabile mondo e mette in moto una catena di eventi che porterà tutti i personaggi a fare i conti con sé stessi, il passato e il futuro.
C’è un’ambiguità che scorre come un fiume sotterraneo nell’opera: ogni evento non è come appare, ogni personaggio ha un lato oscuro, come la luna piena che splende nel cielo quando Davide (Adriano Pantaleo) arriva e chiede di poter lavare via il sangue dalla sua camicia. Un’apparizione, un fantasma del passato? O una nuova possibilità per il futuro? Se lo domandano i tre membri della famiglia che lo accolgono e non fanno (troppe) domande e arrivano a proteggerlo dal commissario () venuto a indagare sulla morte di uno spacciatore del vicolo.
Un testo dalla bellezza oscura, che avvolge il pubblico e lo costringe a osservare la decadenza di una famiglia che prova a sopravvivere, moderni Malavoglia aggrappati ostinatamente al loro scoglio, in attesa che la marea li inghiotta. Non c’è speranza nel mondo ricreato sulla scena: una lavanderia asfissiante, uno spazio angusto, fatto di metallo e plastica, dove i personaggi si muovono come animali in gabbia.
E tutto questo arriva prepotentemente al pubblico grazie alla presenza scenica degli attori: eccellenti nelle loro performance, non sono macchiette che si muovono su uno sfondo, ma personaggi reali, di carne e sangue, pieni di rabbia repressa, di disillusioni. Alessandra Borgia, Angela Fontana, Giuseppe Gaudino, Stefano Meglio e Adriano Pantaleo si impadroniscono del palco e ne fanno un territorio di caccia e di violenza. Una violenza repressa a stento, sul punto di esplodere, come le fiamme di un incendio a cui non ci si può sottrarre.
Non c’è speranza nel mondo portato in scena, è vero: non c’è più vita, quel mondo si è ripiegato su sé stesso e ha ingabbiato i suoi abitanti. E, allora, che cosa resta da fare? Non resta che distruggere e guadagnarsi la libertà strisciando via, sui gomiti, mentre le fiamme divampano alte e tutti – i personaggi, il pubblico, il palco stesso – restano a guardare l’azione purificatrice del fuoco. Una catarsi in piena regola, tremenda e meravigliosa.