Alessandro Sbrogiò è nato a Catania nel 1963 e fin dalla pubertà ha sposato la musica, che per lunghi anni è stata il suo lavoro.
Mai sazio di nuove esperienze, ha scritto musica per il teatro e l’audiovisivo e, pur soddisfatto della strada intrapresa, non ha mai dimenticato un altro vecchio amore: la scrittura e noi lo incontriamo per la nostra rubrica “Libri e Scrittori“.
Il libro è disponibile di seguito:
Alessandro Sbrogiò, benvenuto su La Gazzetta dello Spettacolo. Se l’improvvisazione talvolta è un’arte, la preparazione e la disciplina richiedono studio, rigore, passione e tenacia. Tu come ti sei formato a livello musicale?
Mi viene da dire che anche l’improvvisazione richiede esperienza, dunque conoscenza e studio. Questo concetto è perfettamente riscontrabile nella musica jazz, per imparare a improvvisare i jazzisti non smettono mai di studiare. Nessuna disciplina artistica seria è praticabile senza applicazione e sacrificio. Io ho iniziato a 11 anni con una chitarra da 12.000 lire (oggi sarebbero più o meno sei euro, incredibile!). La mia formazione iniziale è stata prettamente pop rock, erano gli anni ’70. La musica stava cambiando ed era eccitante poter assistere a queste grandi novità. Nei primi anni ’80 ho deciso che la musica doveva essere la mia professione e mi sono iscritto al conservatorio Benedetto Marcello di Venezia, dove mi sono diplomato in contrabasso sette anni più tardi. Sono stati anni di studio intenso e pratica continua, ma anche di scoperta dei repertori della musica classica e contemporanea. Per lungo tempo ho fatto il concertista in giro per il mondo, ma non ho mai dimenticato di aver iniziato a suonare nelle sale da ballo. Mi ritengo fortunato ad aver praticato tanti tipi di musica. Adesso che non suono più nelle sale da concerto, mi sono permesso di produrre un cd di musica mia, Banda Vaga, con la Magister Espresso Orchestra, dove ho cercato di filtrare tutte quelle esperienze.
E nei confronti della scrittura qual è stato l’approccio di Alessandro Sbrogiò?
Inevitabilmente molto più libero della musica, anche perché la scrittura non impone ore e ore di tecnica. Semmai comporta lunga dedizione alla lettura, ma quello è il paradiso. Ancora oggi mi rattrista non avere il tempo di leggere tutti i libri che vorrei. In testa ho una lunghissima lista di titoli che mi attendono, alcuni sono già nella mia libreria. Quando però dico che con la scrittura ho un approccio più libero che con la musica, non intendo meno faticoso. Scrivere sfianca mentalmente, ti esaurisce, è sudore infinito. Perché quello che scrivi non ti soddisfa mai, non suona come mai vorresti. Diffido sempre di quegli artisti convinti di avere creato l’opera del secolo: l’insoddisfazione è il motore che ci permette di migliorare. Sono dell’idea che bisogna rimanere sempre critici verso i propri lavori, chi si accontenta è uno stolto.
Veniamo al tuo terzo libro Il falò del Saraceno, pubblicato da Bookabook e arrivato tra i finalisti del Premio Garfagnana in Giallo Barga Noir 2020 quando era ancora inedito. Come è stato accolto dalla critica e dal pubblico di lettori?
Credo abbia spiazzato più di qualche mio lettore. È un libro molto diverso dai primi due, apparentemente dai temi più nobili: Cadenze d’inganno narrava della sparizione di un violoncellista poco prima di una tournée, si parlava di musica antica e di ars combinatoria, al centro di Orchestra Tipica Madero c’era l’omicidio di un violinista di strada, ma anche il tango, il jazz e un pezzo di storia dell’Argentina. Ne Il falò del Saraceno, pur rimanendo sostanzialmente un giallo, i protagonisti sono tre ragazzi siciliani degli anni ’70 simpaticamente borderline e il linguaggio è conseguentemente goliardico e più robusto. Ho dovuto affrontare aspirazioni irrealizzabili, delusioni sentimentali, scoperte culturali e iniziazioni sessuali. Ho ricevuto messaggi di apprezzamento da lettori che avevano vissuto quel periodo e avevano ricordo dell’ingenua consapevolezza da cui eravamo pervasi. Eravamo convinti di essere in grado di dirigere la nostra vita e di cambiare il mondo. Il modello da evitare era quello dei nostri genitori, cresciuti dopo la guerra in un ambiente molto formale e scontato, il lavoro, la famiglia, la rigida educazione e il senso del dovere. Insomma, mi pare di capire sia una storia che ha strappato più di qualche nostalgico sorriso a tutti quelli che in quegli anni hanno messo in dubbio quei valori, quasi sempre combattendoli con la fantasia e l’ironia. Anche se alla fine, magari rimodellandoli, li abbiamo rivalutati. Ma era un viaggio importante da fare.
Quali sono le tematiche portanti che affronti nelle sue pagine Alessandro Sbrogiò?
Quello della crescita dei protagonisti è certamente un tema portante, ragazzi che arriveranno alla fine del romanzo molto diversi da come sono partiti, malconci e rattoppati e non meno confusi, ma arricchiti dell’accettazione che è saggezza e serenità. Ci tenevo a raccontare la Sicilia per come la vedevamo noi che sognavamo l’Inghilterra e gli Usa negli anni ’70. Eravamo convinti di essere nati nella parte sbagliata del mondo, i grandi avvenimenti erano lontani e a noi giungevano solo gli echi dei cambiamenti sociali e artistici. Nel tentativo di annullare quella distanza leggevamo libri alla ricerca di nuove verità e andavamo a caccia di dischi di musicisti spesso sconosciuti. Fa da sfondo a tutto il romanzo il grande petrolchimico della rada di Augusta, già colpevole in quegli anni delle morie dei pesci e di danni ancora maggiori, che non ho ritenuto opportuno citare in un romanzo leggero e divertente come spero sia Il falò del Saraceno.
Cosa pensa Alessandro Sbrogiò della società odierna?
Penso che, come tutte le precedenti, sia profondamente ingiusta. Mi riferisco alla sempre più raccapricciante suddivisione delle ricchezze e dunque della cultura e della conoscenza. Fino a qualche decennio fa si ipotizzava un salvataggio comune, si parlava di rivoluzione pacifica e di benessere globale, adesso, al massimo, si spera di cavarsela da soli. E soprattutto non ci si indigna più, la rabbia serve solo a prendersela con altri disgraziati e c’è chi ci marcia sopra. Per quello che mi riguarda, negli ultimi anni, ho ripensato alla mia vita. Abito in una casa più piccola, uso molto meno l’automobile, cammino di più e ho iniziato a meditare due volte al giorno. Ho un’età in cui vale più il tempo che il denaro. Sia chiaro, non voglio passare per un modello da seguire, ho ancora un sacco di cose da farmi perdonare, e anche se questo è il massimo che sono riuscito a fare, come dicevo prima, chi si accontenta è uno stolto.
E del mondo dello spettacolo e dell’arte a cui ti dedichi professionalmente ogni giorno?
Mi piace chiamarlo “il rutilante mondo dello spettacolo”, anche se le produzioni che fanno grandi numeri in genere le trovo scontate, al limite del noioso, ma c’è chi rischia denaro per offrirle al grande pubblico e capisco preferisca andare sul sicuro. Trovo molto più stimolanti gli artisti sperimentatori, quelli che cercano nuovi linguaggi e tentano percorsi inediti. Nonostante sia tutto in rete, si fa molta fatica a individuarli, mischiati come sono alla miriade di copie della copia della copia… Però vale la pena cercarli, da questo punto di vista strumenti come Spotify sono straordinari, a patto che non ci si accontenti di quello che propone in automatico l’applicazione.
Infine, una curiosità: qual è la domanda che fino a oggi non è mai stata fatta ad Alessandro Sbrogiò e che desidererebbe gli venisse posta in un’intervista?
Una domanda che io stesso mi pongo spesso è se sono o no al passo con i tempi e se il disagio che a volte avverto sia dovuto all’inevitabile gap generazionale o a una scomoda coerenza con il mio trascorso. Che poi una cosa non esclude l’altra. La verità è che trovo più rassicurante vivere nell’ambiente mentale e culturale che mi sono costruito negli anni. Ormai non sarei più in grado di leggere anche una sola pagina dell’ultimo libro dell’influencer di grido che racconta la sua avventura di vita. Preferisco i libri che trasudano di altri libri, che hanno radici nel passato, che raccontano dei perdenti piuttosto che dei vincenti. Arrivo però sempre alla conclusione che in realtà non sono mai riuscito ad appassionarmi ai prodotti mainstream, dunque defilato lo sono sempre stato. È uno stato che consiglio a tutti, rischi di imparare a pensare con la tua testa e di fidarti del tuo gusto. Senza dimenticare mai che i giovani devono fare i giovani e cambiare le cose, perché le cose è giusto che cambino. Mi auguro solo che lo facciano con curiosità e attenzione.