Stefano Vizioli, un maestro fuori dagli schemi

Stefano Vizioli, un maestro fuori dagli schemi

A tu per tu con il Maestro Stefano Vizioli, che “fuori dagli schemi”, risponde alle domande sulla sua carriera e progetti.

Stefano Vizioli è tra i registi e direttori artistici, che più ama il Teatro in tutte le sue declinazioni, avendo vissuto personalmente tutte le esperienze lavorative teatrali. Dalla comparsa, al maestro sostituto; dall’assistente di regia ad oggi che è sia regista che direttore artistico.

Nato a Napoli e formatosi al Conservatorio San Pietro a Majella, dove si diploma in pianoforte. Per me, che ho avuto il piacere di lavorarci in molte occasioni, oggi si racconta in questa intervista, in cui tiene fede al suo spirito di conoscitore e studioso curioso.    

Benvenuto sul quotidiano “La Gazzetta dello Spettacolo” al Maestro Stefano Vizioli, tra tutte le opere liriche dirette, se lei fosse una di esse, quale sarebbe, quale personaggio vorrebbe essere e perché? Da chi si farebbe dirigere?
Oh Dio che spavento! Allora penso, probabilmente Così fan tutte, diretto da Strehler, che purtroppo non c’è più. Direi fra i miti, lui è stato il Maestro assoluto e Così fan tutte è l’opera che, per certi aspetti, è più rappresentativa. Come direttore d’orchestra, ho lavorato con tanti grandi, anche se non è sempre detto che “ i grandi” siano i più simpatici. (sorride). Forse tra tutti Carlos Klaiber, che è anche lui un mio mito assoluto e che non ha mai diretto Così fan tutte né credo abbia diretto Mozart in vita sua. Sicuramente, la sua, sarebbe stata una bella direzione. Ecco in assoluto, mi sento di dire che lui è tra i direttori d’orchestra che ho preferito. Tra i protagonisti dell’opera tutti i ruoli sono belli. Ma se devo scegliere, direi assolutamente Fiordiligi, la buttiamo subito nel gender che facciamo prima!

In passato ha realizzato dei “ lavori trasversali” attraverso il progetto Opera Bhutan, con opere quali Acis e Galatea di Händel e Japan Orpheo una rivisitazione dell’opera di Monteverdi. In cosa consisteva, ce ne potrebbe parlare?
Diciamo che l’interesse principale è la ricerca di studiare e scoprire cose nuove che già a priori, rappresentano un motore fondamentale. Quando si è presentata l’occasione, soprattutto con il Bhutan, essa prevedeva molti viaggi studio, nel senso che non si andava lì con l’intento di colonizzare un paese, ma con il desiderio di rispettare i linguaggi artistici, teatrali eccetera. È stato un lavoro molto importante, fatto di studio e di ricerca, perché soprattutto si è cercato di trovare un titolo adatto ad un paese non avvezzo all’Opera, nel quale ci fossero delle affinità. Per cui in una cultura buddista e sincretista, come quella del Bhutan, un paese che sta in mezzo all’Himalaya e che ha delle affinità con la nostra mitologia, quali l’amore, la morte, la trasformazione, la metamorfosi e l’essere qualcosa oltre la morte, ha trovato in Acis e Galatea  la perfetta descrizione. Siamo nel mito di Ovidio che, poi in tutte le declinazioni musicali e pittoriche di questo mito siciliano, ha trovato molta più affinità nella sensibilità degli artisti bhutanesi e sicuramente la ricerca è partita dal fatto che ci sono state delle occasioni fortuite, nel trovare delle persone con cui cavalcare questa specie di tigre impazzita che ci faceva percorrere territori sconosciuti, sia geografici che mentali. La bellezza del mio lavoro, come dico sempre, consiste nel non finire mai di studiare e di imparare cose nuove, essendo curiosi di farlo. Quindi questo è quanto si è presentato sia con il Bhutan che con il Giappone, con Japan Orpheo. Infatti nella tradizione nipponica c’è un mito identico al mito di Orfeo. Per cui la ricerca della donna amata, morta ritrovata negli inferi, trova affinità nel loro mito di Izanagi e Izanami, quindi diciamo che è stato importante suggerire questi titoli perché potessero pienamente entrarci le arti performative di questi paesi in maniera dialettica ma senza che ci fosse una colonizzazione occidentale. Il tutto realizzato con grandissima umiltà e rispetto per le culture diverse.

Per la sua direzione artistica presso il Teatro Verdi di Pisa, è stato definito, un maestro “ fuori dagli schemi”, proponendo titoli poco frequentati, tra i quali Pia De’ Tolomei di Donizetti e Edipo Re di Leoncavallo. Le è piaciuta questa definizione?
Dunque, partiamo dal noto aforisma secondo cui: “Non si deve dare al pubblico quello che desidera, ma quello che non sa di desiderare”. Ecco io sono contento quando mi definiscono “ fuori dagli schemi”, soprattutto perché fa parte della mia personalità non essere particolarmente incasellabile, sono un po’ una mosca bianca sotto tanti aspetti. Sono regista, ma sono diplomato in pianoforte; faccio il direttore artistico però vengo ancor prima dalla gavetta del palcoscenico e musicale. Dando per scontato una preparazione solida e tecnica, anche il mestiere del direttore artistico è molto creativo se ti permettono di farlo. Durante la mia direzione al Verdi di Pisa, si è avuto il teatro sempre pieno e con una campagna abbonamenti in aumento. In ciò è stata molto importante la fidelizzazione del rapporto con la città. Il teatro è il baluardo della civiltà di un paese, non è una roccaforte chiusa dentro sé stessa. Quindi le mattine io andavo nelle scuole per raccontare le opere ai bambini che poi venivano alle prove generali. Ma sono andato anche negli ospizi e nelle università. Ho preteso che il teatro “ facesse l’amore con la città” e questa cosa è stata ampiamente ripagata da uno straordinario affetto che ho avuto con il pubblico. Avendo sempre il teatro pieno per tutte le opere in cartellone, senza distinzione, tra quelle più rappresentate alle meno conosciute come Pia De’ Tolomei o Edipo Re di Leoncavallo. E dirò di più, Pisa è stata la città natale di Titta Ruffo che è stato il primo a cantare l’ Edipo Re, di cui in teatro posseggono anche i costumi originali. Per cui ho trovato importante, anche per questo particolare, rappresentare questo titolo. In tutto ciò, le cose che si fanno hanno poi un feedback nazionale importante. La comunicazione in tutto questo è fondamentale. Poi ad onor del vero, il pubblico di Pisa era abbastanza onnivoro e molto legato al piacere del belcanto, che ha accolto in modo favorevole sia Pia De’ Tolomei( di Donizetti) che il Mosè in Egitto di Rossini e anche il Guglielmo Tell ( sempre di Rossini). Ogni ordine di palco era sempre zeppo di pubblico. Ecco, ripeto però che esso è stato frutto di un bellissimo rapporto con la città, che mi ha permesso di conoscere gli spettatori, uno per uno e conoscerne i loro pareri, dialogando con ognuno di loro.

Nell’anno 2020, sul canale YouTube ha dato vita a due programmi originali e tanto seguiti. Alfabeto lirico ed Ekebú. Rivelando le sue abili doti di comunicatore. Tanto che poi per Rai 5 ha curato delle inaugurazioni operistiche. Le piacerebbe che le proponessero un programma di Divulgazione musicale, con il suo eclettico stile?
Sì sono stati due programmi che ho voluto fortemente fare, soprattutto Alfabeto lirico. Esso era legato molto al rapporto mio col pubblico, soprattutto di Pisa. Infatti, mi dissi, dato che a causa del Covid, si chiude tutto, io non voglio chiudere il mio rapporto col pubblico. Per cui mi sono inventato qualcosa che potesse tenere un poco di compagnia. Perché la cosa che ha avuto molto successo è stato il fatto che la gente era costretta a stare a casa. Quindi io ero collegato con i ragazzi che stavano a Viareggio ed io nella mia casa a Roma, per cui c’erano questi montaggi abbastanza surreali. Il tutto era suddiviso in puntate che dovevano durare una ventina di minuti, senza fare una lezione cattedratica, ma divertente. Quindi mi sono divertito attraverso l’alfabeto a proporre titoli di opere meno prevedibili. Per esempio alla lettera R, ci ho messo il Reggente di Mercadante; alla V, ci ho messo la Vivì di Mannino. Era anche un’occasione in cui affrontare titoli mai sentiti. Pertanto, essendo io molto curioso ed essendo io il primo a conoscere i titoli, mi invogliava a scoprire e studiare cose nuove. Con Ekebù, di cui ho preso il titolo dall’opera di Zandonai, basato sulla saga di Gösta Berling di Lagerlöf, volevo cercare un titolo curioso, che stimolasse l’interesse nello spettatore, nel dire “E ora cosa vorrà dire questo titolo?” Certamente mi piacerebbe molto condurre un programma. Diciamo che non sono grandissimo in pubbliche relazioni, verso me stesso. Per cui facendo questi programmi, hanno attirato la curiosità di Rai 5 e da lì c’è stata una frequentazione con la rete. Da questo ho presentato delle dirette Rai, quali le inaugurazioni a Roma, a Napoli col Don Carlos e anche a Parma che è stata la prima puntata per l’opera Pelléas et Mélisande in pieno Covid, senza pubblico. Per cui questa è una forma colloquiale e dialettica, che sottende sempre una competenza. Perché, come sostengo, è proprio quando si è competenti che si è leggeri. Con l’espressione “essere leggeri” non voglio dire essere superficiali, ma semplicemente avere quella freschezza nel raccontare delle cose, ma con padronanza, con un modo leggero e senza quel “paludamento” da lezione noiosissima. Ma nemmeno la superficialità o l’ignoranza abissale di alcune presentazioni blasonate, che sono un po’ vergognose.

Nel 2024, ha pubblicato per Artemide Editore, il suo libro Suonare il palcoscenico. In cui attua delle conversazioni sulla Regia lirica. Ma il palcoscenico che suono ha? Ce ne vorrebbe parlare?
Già domani ( 11 giugno) andrò a presentarlo ad Alessandria e il 13 lo presenterò a Genova. Ho fatto tantissime date e sono già stato alla Scuola di musica di Fiesole. È un libro che è nato un po’ durante il Covid, ed è diviso in due parti. Nella prima, ci sono dieci conversazioni con dei temi vari, si va dall’opera Barocca all’ esperienza con le Masterclass, al rapporto con l’opera tradizionale e ovviamente all’opera Bhutan. Poi nella seconda parte c’è una sorta di endorsement di alcune persone che hanno scritto in questo libro su di me e poi una specie di “dizionarietto” dell’imperfetto regista d’opera, dall’assistente, al tavolo di regia fino ai maestri sostituti e alla fine due pagine di autobiografia. È pieno di fotografie, soprattutto non è un libro autobiografico, ma potrebbe vagamente suggerire un possibile metodo, basato sulla mia esperienza personale che nasce tutto dallo studio per la musica, avendo poi ricoperto tutti i ruoli in teatro: ho fatto dalla comparsa, all’assistente alla regia. C’è una biografia, ma vi sono anche gli incontri e le esperienze avuti nella vita. Si parla moltissimo di rapporti col coro, coi cantanti, col direttore d’orchestra, fino al costumista. Per questo il titolo, Suonare il palcoscenico, perché il palcoscenico è uno strumento. Il suo suono, per mia esperienza personale, è quello del pianoforte ma è anche il suono di un’orchestra. La cosa importante in questo è l’interpretazione, che si può avere mettendo tanto cuore e che puoi fare solo se hai una tecnica infallibile. Perché bisogna capire che il palcoscenico è uno strumento che va suonato con questi due elementi: Cuore e Tecnica.

Se lei avesse la facoltà per del tempo di far tornare una persona a lei cara, che si tratti di un affetto o di un musicista o artista del passato, chi tra loro vorrebbe rivedere?
Parlando in senso affettivo, penso subito alle persone che sono mancate, come i miei genitori che sebbene siano morti in un’età abbastanza avanzata e naturale, hanno lasciato il posto vuoto. Ma penso anche alla figura di Arrigo Quattrocchi, mio amico e che trovo ingiusto sia andato via troppo presto. Un’altra figura che è mancata e a cui ero legatissimo, era Michele Girardi. Lui è un’altra persona che mi manca per il suo aspetto morale, per la sua cultura e per quella sua enorme capacità di indignarsi. Era veramente una mosca bianca come pochissime mosche bianche. E poi naturalmente uno dei miei maestri, Filippo Sanjust, che anche lui mi è stato strappato troppo presto.

Quale domanda che non le ho fatto, le sarebbe piaciuto le facessi?
Veramente non saprei, perché sei stata brava a farmi tutte le domande che volevi, che non saprei cos’altro augurarmi. Se proprio, diciamo fondamentalmente l’aspetto etico di questo mestiere che è la cosa più importante. Cioè la parte morale, nel senso che comunque sia c’è molta mistificazione anche in questo mestiere che, molta gente si arroga il diritto di compiere. Ma che non ha minimamente la competenza tecnica. Io trovo delle volte, certe scelte fuori di ogni forma etica. Viviamo in un momento storico in cui poca gente lavora e quelli che lavorano devono essere inattaccabili per preparazione, per attendibilità, per competenza, perché c’è tanta gente molto più brava che sta a casa disoccupata. Quindi se tu hai l’onore di lavorare, con responsabilità etica, cerca di far fronte con dignità, all’aspetto morale di questa tua opportunità. In definitiva, mi considero una mosca bianca, non frequento i “ salotti” eppure talvolta, mi chiedo come nonostante ciò io lavori.

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