Mostri e Leggende di Napoli
Marco Luongo sui miti e misteri della città racconta Napoli, la città del clichè “sole, pizza e mandolino”.
Napoli, città solare adagiata sulle sponde del mare, come una languida, bellissima donna, che si rispecchia nell’acqua che la lambisce. Dove c’è luce però c’è sempre anche ombra ed è di questa, almeno sotto gli aspetti leggendari, che ci vogliamo occupare.
“Dall’Italia passarono in Germania e in Francia. Io loro primogenito, nacqui a Napoli e, in fasce, li seguii nei loro vagabondaggi” questo è quanto Mary Shelley fa dichiarare, parlando dei genitori, al dottor Victor Frankenstein nella famosa opera letteraria “Frankenstein ovvero il moderno Prometeo”.
Dunque il creatore del celeberrimo mostro di Frankenstein era nato a Napoli! E che dire dell’altro grande signore della letteratura horror? Parliamo di Dracula, il cui autore Bram Stoker si vuole sia stato ispirato dalla figura d’un personaggio storico realmente esistito: Vlad III Tepes di Valacchia detto “l’impalatore” e alla sua sinistra fama. Cosa c’entra un principe rumeno del 1400 con Napoli? C’entra, c’entra! Perché secondo alcuni studiosi il Conte Dracula sarebbe sepolto proprio nel cuore del capoluogo campano, nel Chiostro del Complesso Monumentale di Santa Maria La Nova, nell’antica cappella della nobile famiglia Ferrillo, il cui rampollo avrebbe preso in sposa Maria, la figlia del principe delle tenebre. Questa a sua volta, riscattata le spoglie del famigerato genitore dagli ottomani, ne avrebbe dato sepoltura nella cappella gentilizia della famiglia del marito.
Tomba tanto più decorata da un blasone raffigurante un dragone, l’ordine al quale apparteneva Vlad III per l’appunto e da cui presumibilmente deriva l’appellativo Dracula. Soltanto una leggenda metropolitana o una ricostruzione storica da prendere in considerazione questa sepoltura partenopea del Nosferatu? Vari sono gli elementi citati a suo supporto da sostenitori, ma che per ragioni di spazio, non possiamo prendere in considerazione nella presente trattazione.
A questo punto non possiamo esimerci dal citare colei che è il simbolo stesso della città: la sirena Partenope.
La immaginiamo quale splendida fanciulla dai dorati capelli fluenti e la coda di pesce, come da iconografia disneyana, che deriva da quella medievale. Partenope in realtà era una delle sirene narrate nell’Odissea da Omero, che con il loro canto ammaliavano i marinai, facendoli impazzire per poi ucciderli. Solo lo scaltro Ulisse con uno dei suoi stratagemmi riuscì a farla loro in barba… Le sirene non presero proprio bene la loro debacle e si suicidarono e il corpo di Partenope fu trasportato dalle correnti sulle sponde del golfo in corrispondenza dell’attuale Santa Lucia. L’aspetto di Partenope era tutt’altro che quello prima descritto.
Secondo la mitologia, oltre che assassina, era decisamente mostruosa. Le sue sembianze erano più propriamente quelle di un’arpia, con capo e petto di donna, ma ali e artigli di rapace. Si vuole anzi che il piccolo arcipelago Li Galli, appartenente al Comune di Positano, il presunto covo delle sirene, derivi il proprio nome giusto dalla raffigurazione antropomorfa delle sirene nel periodo greco arcaico.
Per restare in tema omerico non possiamo tralasciare il mitico Polifemo. Proprio quello che fu accecato da Odisseo.
L’antro del ciclope, secondo l’ipotesi avanzata da alcuni ricercatori, sarebbe da ubicare nella grotta nel quale alveo naturale in epoca romana, avrebbero scavato la Galleria di Seiano giù a Coroglio, a poca distanza dall’isolotto di Nisida, sul quale sarebbe approdato Ulisse con le sue navi. Decisamente meno impressionante, ma comunque inquietante è il famoso “Munaciello”. Una sorta di folletto benigno, ammantato in un saio con cappuccio, che girava, se non infestava, le antiche dimore. Talvolta portando sollievo alle persone in difficoltà, pure facendo trovare doni o piccole somme e talaltra insidiando le fanciulle o facendo sparire qualche oggetto anche di valore.
Una figura probabilmente mutuata dai pozzari, cioè gli addetti alla manutenzione dei pozzi, che a causa della natura del loro lavoro, dovevano necessariamente essere piccoli, esili e molto agili per potersi arrampicare negli angusti condotti e che indossavano una lunga cerata con cappuccio per proteggersi dall’umidità. Consideriamo poi che proprio attraverso i pozzi avevano tendenzialmente accesso pure alle abitazioni sovrastanti e che come si suol dire: “l’occasione fa l’uomo ladro” o in questo caso “munaciello”!
Volendo glissare sulle legioni di demoni evocate dal Virgilio mago per scavare in una notte la Crypta Neapolitana, o alle tante case infestate da spettri o fantasmi, possiamo ora dedicarci all’antica leggenda del drago del Vico della Serpe. Nei pressi di Porta Capuana, ci racconta frate Serafino nella sua opera edita nel 1715, intitolata “Zodiaco di Maria, ovvero le dodici provincie del Regno di Napoli”, oltre l’antica cinta muraria cittadina, aldilà della monumentale porta d’accesso, esisteva una malsana palude ove chi si avventurava veniva assalito da un “draco” (drago o grosso serpente), che uccideva i malcapitati col suo fiato pestilenziale, o pietrificandoli con lo sguardo (forse un retaggio del mito della Medusa). Fin quando Gismondo, un giovane nobile nel lontano anno 832 d.C., decise comunque di sfidare la sorte, pur di poter raggiungere l’Ara Petri, l’altare nella Basilica di San Pietro ad Aram al Corso Umberto, dove si vuole che lo stesso San Pietro avesse celebrato messa. Il giovanotto non ebbe alcun tragico incontro e giunse sano e salvo nella città. Quella notte, però, gli apparve in sogno la Madonna, che gli raccontò di aver lei ucciso il terribile drago per consentirgli di passare incolume, chiedendogli in cambio di edificare una chiesa in suo onore là dove avesse trovato le spoglie della creatura. Gismondo non volendosi sottrarre a quel che riteneva un vero e proprio voto, si avventurò di nuovo nella zona paludosa e pare che trovò il corpo senza vita del mostro.
Esattamente in quel punto fece edificare la Chiesa di S. Maria ad Agnone, dove Agnone deriverebbe dal latino “anguis”, cioè anguilla, ovverosia grossa serpe. Chiesa poi distrutta nella seconda guerra mondiale, nel corso dei bombardamenti aerei che nel 1943 devastarono Napoli.Parlando di rettili, non possiamo non menzionare il coccodrillo di Castel Nuovo a Piazza Municipio.Un terribile mostro che secondo la leggenda, citata anche da Benedetto Croce nella sua monumentale opera “Storie e leggende napoletane”, dimorava nelle viscere del castello, là giunto dall’Egitto “attaccato ai fianchi d’un bastimento”. Si vuole che ai tempi di Ferrante d’Aragona, fosse usanza calare i prigionieri che maggiormente si voleva castigare in una sorta di pozzo situato alla base di uno dei torrioni. Una specie di cella umida e tenebrosa al livello del mare. Solo che misteriosamente i condannati là rinchiusi sparivano nel nulla. A questo punto la sorveglianza fu intensificata, fin quando il mistero fu svelato, perché si vide un grosso coccodrillo penetrare da un pertugio nella fossa, afferrare per le gambe il malcapitato e trascinarselo via per divorarlo.
Sempre secondo la leggenda, il divoratore fu dapprima utilizzato per liberarsi dei detenuti più “scomodi” e poi pescato all’amo con un’ancora su cui era stato legato sopra una coscia di cavallo e infine ucciso. Il suo corpo impagliato si vuole che fece bella mostra su una delle Porte del Maschio Angioino per anni ed anni.
Citando ancora “Storie e leggende napoletane” non possiamo non parlare anche di un’altra figura leggendaria, quella di Niccolò Pesce o Cola Pesce, l’uomo anfibio.In base a quanto tramandatoci, questi era un ragazzino che trascorreva tutto il tempo in mare a nuotare e giocare fra le onde, facendo disperare la madre.
La donna esasperata un giorno inveì contro la sua stessa progenie: “Che possa diventare pesce” urlò. La sua sdegnata invettiva si trasformò in una vera maledizione e il fanciullo da quel momento visse davvero come una creatura marina, capace di passare intere giornate nelle profondità del mare, senza bisogno di tornare a galla per respirare. Degno di nota è che questi nelle tradizioni popolari è ritenuto raffigurato in un antico bassorilievo di epoca classica, rinvenuto negli scavi per le fondazioni di Sedile di Porto ed attualmente murato nella facciata di un palazzo a Via Mezzocannone. Un uomo estremamente villoso armato di coltello, presumibilmente riproducente Orione o piuttosto un’arcaica divinità acquatica.
Dopo vampiri, mostri e uomini pesce, possiamo dimenticare un’altra icona del panorama horror, che pare abbia anch’essa dimorato nella nostra città? Di chi stiamo parlando se non d’un uomo lupo! Il licantropo di Secondigliano, quando l’area non ancora ricoperta da asfalto e cemento era ancora una campagna. Si tratta d’una leggenda contadina di qualche centinaio di anni fa e di cui resta ancora vestigia nella toponomastica della zona con il nome di Cupa Fosso del Lupo. Un antico tracciato risalente al XVII secolo, dove Cupa è il nome dato alle vie sorte sui letti di vecchi corsi d’acqua. Ebbene pare che nell’antichità di notte fosse bene star lontani da quella strada e dai suoi paraggi, perché là un uomo era stato già sbranato da un licantropo. Anche in questo caso il mito trarrebbe origine da un presunto atto di crudeltà. Per catturare un lupo che si aggirava per quei campi, alcuni contadini avevano scavato un fosso, in cui la bestia era precipitata, rimanendo intrappolata, per essere letteralmente sepolta viva dai villici impietosi. Così per una sorta di legge del taglione, da quel momento un feroce uomo lupo si aggirò per quelle contrade, assalendo gli incauti viandanti.
Dopo storie fosche e cruente, proviamo a congedarci da questa breve panoramica sui mostri che almeno nella fantasia hanno popolato il territorio partenopeo, citando un personaggio che pur praticando arti stregonesche e cavalcando una scopa volante, di tenebroso ha ben poco. Stiamo riferendoci ad “Amelia la Fattucchiera” del fantastico universo partorito dalla geniale immaginazione di Walt Disney. La strega ossessionata dal primo cent guadagnato da Paperon de’ Paperoni e che nel tentativo di impossessarsene, va incontro a un’infinita serie di rocamboleschi e tragicomici fallimenti. Converrà ricordare che proprio alle pendici del Vesuvio viene ubicata la sua casupola con onnipresente pentolone ricolmo di magiche pozioni messo a bollire sulle braci. Come già espresso nel preambolo di questa succinta trattazione, dove c’è luce vi è anche tenebra, che sono due facce della stessa medaglia e ritengo sarebbe davvero auspicabile che i lati oscuri di questa meravigliosa terra, fossero soltanto quelli derivanti da miti e leggende, seppur cupi, crudeli e sanguinari.