E nella vita non si sa mai, di Raffaele Di Palma
Un mondo nella vita letteraria di Raffaele Di Palma, che si racconta a cuore aperto sulla sua ultima opera in libreria.
Architetto, docente, scrittore, Raffaele Di Palma è tornato in libreria con “E nella vita non si sa mai” per Genesi Editrice, nella collana Ōkeanós, 15, con la postfazione curata dal docente di letteratura italiana all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e critico militante Carlo Di Lieto.
Già noto per la sua scrittura a forte impatto emozionale, in queste sue nuove pagine esplora temi come l’amore, la perdita, il ricordo e la ricerca di un senso. Ne parliamo con lui per la nostra rubrica Libri e Scrittori.
Raffaele Di Palma, benvenuto su La Gazzetta dello Spettacolo. La narrazione si snoda tra momenti di spensieratezza e riflessioni profonde, per compiere un viaggio introspettivo e geografico alla scoperta di sé. Il titolo evoca forse un senso di possibilità e incertezza che permea l’esistenza umana?
Volevo scrivere un romanzo che risultasse quanto più vicino alla realtà, volevo che la storia potesse essere il più vicino possibile al vissuto di tutti, insomma una storia attuale che fotografasse anche il nostro modo di vivere, quello dei nostri giorni: spensieratezza e riflessione non sono altro che un mix di pieni e vuoti che ciclicamente scandiscono il passare dei nostri giorni. Il titolo stesso ne è un’istantanea, anche se poi solo a fine lettura è possibile comprenderne l’origine e quindi il suo perché. Una cosa è certa: quattro anni fa non avrei mai immaginato di ritrovarmi oggi a muovere passi nei panni del narratore (così ama definirmi il mio carissimo amico Prof. Davide De Stavola, addetto al “controllo qualità” in quanto unica persona a cui è concesso l’onere della lettura dei miei lavori, dalla fase ibrida a quella che precede la pubblicazione). L’aver immaginato una storia capace di svilupparsi attraversando vari luoghi, è testimonianza di come sia partito accarezzando un’idea apparentemente folle e facendo in modo che giorno dopo giorno potesse diventare sempre più realtà, alzando man mano l’asticella non solo per mettermi alla prova, ma anche per coltivare un sogno che inconsciamente custodivo da sempre nel cassetto.
Sogni, arte e memoria come fonti di ispirazione, connessione e riflessione. Quanto la tua formazione accademica influisce sulla scrittura?
Durante il percorso universitario, mi sono ritrovato moltissime volte a dover immaginare qualcosa cercando di farlo in modo unico. Quando un artista crea un quadro, un disegno, un progetto, lo fa cercando di dare la propria visione di realtà, andando inconsciamente oltre. In letteratura questo “giochino” trova una connotazione ben precisa: “sospensione del pensiero”.
Attraverso una poesia, un racconto, un romanzo e altro, si restituisce una visione, che altro non è che un superamento della realtà stessa. Probabilmente sarà questo a legare il “me architetto” al “me scrittore”. L’arte in generale poi, già per il suo essere alla nostra portata, rappresenta allo stesso tempo una fonte di ispirazione enorme e una spalla su cui poggiare in qualsiasi momento. Un’altra fonte da cui attingo è effettivamente quella dei ricordi, intesi come testimonianza nostalgica del vissuto, un vissuto che alla fine torna sempre, sia attraverso la dolcezza che attraverso una maggiore spigolosità, un qualcosa che richiama le infinite sfumature della vita stessa: vivi, senza dimenticare mai quanto c’è già stato. A tal proposito uno dei miei aforismi a cui tengo di più recita: “La vita è fatta di colori e ricordi. Perché la vita senza ricordi è come un triste vivaio senza colori.”, ecco, senza ricordi, senza memoria, non esisterebbe nemmeno il vivere umano.
Nel romanzo hai inserito anche poesie scritte dal protagonista. Perché questa scelta?
Con il primo libro, più o meno da tutti venivo identificato come il poeta. Tuttavia, consapevole di quanto la poesia avesse rappresentato per me una modalità di connessione, un modo per collegarmi all’altro, non avevo immaginato mai di dovermi fermare solo a quello. Avevo incominciato a scrivere aforismi, passando poi per composizioni e infine giungendo a poesie, eppure quasi tutti mi vedevano solo come un poeta, tralasciando almeno due evidenti “evoluzioni”. La cosa che ha fatto scoccare in me la scintilla dandomi una motivazione in più per inserire anche poesie in “E nella vita non si sa mai” è stato il volto poco convinto di un paio di addetti ai lavori, editori conosciuti al Salone del libro 2023: in generale molti ritengono che chi risulti bravo a scrivere poesie debba considerarsi bravo solo in quello, chi invece a scrivere gialli solo in gialli, e chi a scrivere saggi solo in saggi e così via…
Semplicemente nel mio caso non la vedevo così e, essendomi sentito sempre libero di scrivere di tutto e di scatenare tutta la fantasia, trovavo e trovo riduttivo un tale ragionamento.
Un altro tema fondamentale è il rapporto con la famiglia e le radici. Come figlio, Raffaele Di Palma, quanto di autobiografico troviamo?
C’è sicuramente qualcosa di autobiografico, come i sette giorni in cui da liceale marinai la scuola da solo ad esempio, oppure il ricordo del professore che all’epoca mi impartiva ripetizioni, poi c’è un rumore a cui sarò legato per sempre, quello di una vecchia macchina da cucire che nel romanzo richiama la figura di donna Maria, ma che in effetti rappresenta un pretesto per riavvolgere il nastro e tornare ad una parte fondamentale della mia infanzia: i miei fantastici nonni.
L’aver lavorato come docente per tre anni a Torino, l’aver vissuto il primo dei tre a ridosso del Parco del Valentino e, l’aver lasciato lì un pezzettino di cuore, ha influito sull’ambientazione della storia. In quel periodo della mia vita, famiglia e radici coincisero con i miei amici, perché funziona così quando vivi a novecento chilometri da casa. E realmente ci fu un Mario conosciuto lì, con cui legai moltissimo dal primo istante, che visse la surreale ma vera storia della biciletta e, che a distanza di qualche anno mi ha fortunatamente concesso la possibilità di inserirla nel mio romanzo, non prima del mio asfissiante pressing.
Quale aspetto della critica alla tua produzione letteraria ti fa particolarmente piacere?
Mi ha lusingato molto la definizione data alla mia scrittura da uno dei maggiori esperti di psicanalisi dei testi quale il Professore Carlo Di Lieto, che nella postfazione di “E nella vita non si sa mai” le ha attribuito un “forte impatto emozionale”.
Allo stesso modo mi sono sentito lusingato quando persone da me molto stimate hanno voluto dare un proprio riscontro sul romanzo, confidandomi di averlo divorato, incuriositi dagli sviluppi della storia e da quello che sarebbe successo. Ecco, questo aspetto lo ritengo fondamentale: di libri riposti su un comodino dopo la lettura delle prime pagine ne è pieno il mondo. Sapere di essere riuscito a mantenere il passo, incuriosendo il lettore non penso assolutamente sia poca cosa.
Dopo questo romanzo, Raffaele Di Palma pensa già al prossimo progetto editoriale?
Nel mio studio custodisco gelosamente un’agenda dove riporto di volta in volta spunti per nuove storie. Traggo dalla realtà e da chi mi circonda gli spunti necessari per andare avanti e procedere a vele spiegate, cercando di immaginare la destinazione giusta e di correggere la rotta se necessario. Vedremo tra qualche tempo questa avventura dove mi avrà portato, nel frattempo mi godo il viaggio, consapevole del fatto che fin quando ad alimentare il tutto ci saranno immaginazione e tenacia il sogno potrà continuare a vivere.