Un giornalista al servizio degli altri, così potrebbe essere definito Domenico Iannacone, che il 7 settembre verrà insignito del Premio Internazionale Donnafugata, in quel di Palma di Montechiaro.
Un uomo di cultura che con i suoi programmi, “I dieci comandamenti” e “Cosa ci faccio qui”, tra i tanti, ha inventato qualcosa di nuovo, di personale, mettendo sempre ‘gli altri’ in primo piano.
Benvenuto su La Gazzetta dello Spettacolo, Domenico Iannacone. Il 7 settembre parteciperai al Premio Internazionale Donnafugata, in provincia di Agrigento. Quali emozioni provi per questo riconoscimento e cosa ti lega a una terra unica come la Sicilia?
La Sicilia per me non è solo un luogo, è un intreccio di ricordi, sensazioni e bellezza che vive dentro di me grazie agli scritti di Andrea Camilleri. Lui è stato molto più di un autore: è stato una figura paterna, una guida che ha influenzato profondamente il mio percorso, anche professionale. Frequentandolo, ho avuto la fortuna di conoscere questa terra in maniera autentica, oltre gli stereotipi, scoprendone le sfumature più intime. La Sicilia è una terra dalle mille contraddizioni, dove convivono modernità e antichi retaggi, ma è anche uno dei luoghi più affascinanti e misteriosi che abbia mai incontrato. Sono onorato di ricevere questo premio, e ringrazio il direttore artistico Peppe Zarbo per avermi considerato. È una conferma che il mio lavoro ha toccato il cuore di chi ha seguito i miei racconti.
Il tuo modo di raccontare è sempre stato vicino alla gente comune. Quali storie non sono state ancora raccontate?
Le storie più trascurate sono spesso quelle più piccole, invisibili agli occhi della maggior parte delle persone. Ho sempre avuto una passione quasi ossessiva per queste storie minime, perché credo che proprio in esse risieda una grande ricchezza narrativa. Troppo spesso, nel giornalismo, ci concentriamo su eventi eclatanti o ripetiamo ossessivamente le stesse vicende, fino a svuotarle di significato. Io invece credo che esista un universo umano nascosto, fatto di persone e situazioni che meritano di essere scoperte. Dobbiamo avere il coraggio di esplorare queste pieghe della società e dar voce a quei racconti che ci aiutano a capire chi siamo e dove stiamo andando.
Viviamo in una società sempre più priva di valori. Cosa si può fare per invertire questa tendenza?
Siamo chiamati a un grande dovere morale: quello di accogliere e sostenere gli altri. Ma oggi viviamo in un’epoca di isolamento, di chiusura, in cui la paura prevale sulla solidarietà. Dovremmo imparare di nuovo a entrare in contatto con gli altri, a riconoscere nell’altro non una minaccia ma una possibilità di arricchimento. Siamo spesso intrappolati nelle nostre vite, nei nostri problemi, senza renderci conto che le difficoltà degli altri potrebbero essere anche le nostre. E allora, cosa vorremmo dagli altri in quei momenti? Credo che dobbiamo cominciare a vedere il prossimo come una risorsa, un valore, e non come qualcosa di cui aver paura.
“Ballarò”, “I dieci comandamenti”, “Che ci faccio qui”… Come hanno contribuito questi programmi alla tua evoluzione professionale?
Questi programmi hanno segnato un viaggio di scoperta e di crescita per me. Ogni esperienza mi ha insegnato qualcosa di diverso sul modo di raccontare e di essere giornalista. All’inizio i racconti erano brevi, incisivi, quasi fulminei. Col tempo, ho sviluppato un approccio più riflessivo e cinematografico, che mi ha permesso di esplorare le storie in profondità e con il giusto ritmo. Oggi, sento di essere più in sintonia con la mia visione del giornalismo, con tempi e spazi che rispettano la complessità delle storie che voglio raccontare.”
Senti che manca ancora qualcosa al tuo percorso artistico?
Ho sempre cercato di mantenere coerenza nel mio percorso, un cammino che mi ha portato a impegnarmi anche sul fronte sociale. La voglia di raccontare storie è sempre viva in me, ma cresce anche il desiderio di fare la differenza nella vita degli altri, di lasciare un segno tangibile. Questo impegno mi dà forza, mi spinge a fare di più e mi regala l’energia per continuare.
Qual è il consiglio che daresti a chi vuole intraprendere il tuo mestiere?
A chi vuole intraprendere questa strada, suggerisco di rimanere sempre fedeli a se stessi, di difendere con forza le proprie idee e di non lasciarsi corrompere dalle pressioni esterne. Vorrei che i giovani mantenessero intatta la loro purezza, la loro autenticità, senza tradire ciò che sono veramente.
La televisione ha ancora la capacità di influenzare e ispirare le persone Domenico Iannacone?
La televisione ha ancora un potenziale, ma sta perdendo terreno. Il suo impatto si riduce man mano che il pubblico invecchia e si fossilizza su questo mezzo, mentre le nuove generazioni si allontanano. Se la televisione vuole sopravvivere, deve reinventarsi, smettere di invecchiare insieme ai suoi spettatori e investire su contenuti che parlino anche ai giovani, adattandosi ai tempi.
Di recente hai detto di sentirti un ‘marziano’. Come mai?
Mi sono sentito un ‘marziano’ quando la Rai ha deciso, inaspettatamente, di congelare il mio programma per due anni. Questa scelta mi ha fatto riflettere sul fatto che i temi che trattavo, così lontani dalla narrativa televisiva convenzionale, non erano graditi. Ho avuto l’impressione che il mio lavoro rompesse gli schemi di una televisione che spesso non è libera di esplorare nuovi orizzonti
Infine, cosa puoi anticiparci sul tuo futuro Domenico Iannacone?
Spero di poter tornare in televisione entro la prossima primavera, ma nel frattempo continuerò a dedicarmi al teatro, che è una parte fondamentale del progetto di “Che ci faccio qui”. E poi, chissà, un giorno potrei anche cimentarmi in una regia cinematografica: è un sogno che mi affascina molto e che spero di realizzare.