Intervista alla doppiatrice Flavia Altomonte. I segreti del mestiere e tutte quelle emozioni che si ricevono dietro al microfono.
Incontriamo la doppiatrice Flavia Altomonte in occasione del “Suggestioni dal set 12”, ad opera di Marco Bonardelli, a cui prenderà parte il 19 aprile presso lo spazio Roma Lazio Film Commission, nell’ambito della XX Festa del Cinema di Roma. Un incontro piacevole, quello avuto con l’Altomonte, in cui poter ripercorrere l’importanza del suo mestiere, le emozioni che le regala da sempre…
Benvenuta su La Gazzetta dello Spettacolo, Flavia Altomonte. Da tempo doppiatrice, come ha avuto inizio questo tuo percorso artistico?
Buongiorno e grazie a te! Ti risponderò alla domanda nella maniera più inflazionata del settore: “da piccola”! Come se crescere anagraficamente praticando un mestiere restituisse l’immagine di un qualche prodigio. Non credo basti. Non sono “figlia di” perciò, come gran parte dei miei colleghi, ho studiato recitazione teatrale da ragazzina, a Reggio Calabria, nella mia provincia di origine. Ho amato il mestiere dell’attore e l’ho anche odiato, messo in discussione e abbandonato per dedicarmi agli studi universitari. Stavo già intraprendendo un altro percorso lavorativo dopo la laurea in filologia moderna, ma come San Paolo sono “caduta da cavallo” e dopo aver frequentato l’Accademia di Doppiaggio mi sono trasferita a Roma e ho iniziato la semina in questo mestiere, con tutte le difficoltà del caso. Sei anni fa era già quasi impossibile assistere alle lavorazioni e chiedere provini ma, con la tenacia e l’educazione che ho ricevuto dai miei genitori, oggi vivo di questo lavoro, sempre continuando a mettere al primo posto il rispetto dell’altro e la discrezione. Non credo nel ‘merito’, se si considera che la fortuna può incontrare la bravura ma, se dall’altra parte non c’è la volontà di investire su quella bravura, appunto, il concetto di merito risulta fallace. E questo ambiente è fatto prima di tutto di persone che devono credere nel tuo lavoro e fidarsi di te, ed io sono contenta di lavorare spesso con persone che mi valorizzano e che ringrazio.
La tua è una voce bellissima, particolare, prestata ad attrici di spicco come Esther Garrel, Jessica Camacho, Taylor Richardson, Rebecca Liddiard e non solo. Quali emozioni sono legate ad ognuna di esse, ai progetti realizzati?
Ti ringrazio per le belle parole. Da un paio di anni sto imparando a raccogliere i complimenti! Mi piace quando si parla di ‘emozione’ perché l’arte dell’attore deve sempre essere mossa dalla volontà di emozionarsi. Credo sia la nostra missione, ogni mestiere ne ha una, e per farlo bisogna fondere studio, conoscenza, esperienza e sopratutto vulnerabilità, accettando che si può sbagliare o non essere sempre perfetti. È un lungo lavoro su se stessi. Non è per niente facile raggiungere questa perfetta commistione, perché il nostro lavoro è istantaneo: si guarda e si legge una parte della scena per la prima volta e per un paio di volte, e ci si deve appoggiare ad un’interpretazione già esistente ma interiorizzandola come se c’avessimo lavorato noi su quel set, per giorni. Meravigliosamente assurdo, vero? Con le attrici che hai citato e con tutti i personaggi che i direttori mi assegnano cerco sempre di restituire la verità ad ogni battuta, impegnandomi a non risultare mai banale e a non cadere nel cliché del doppiaggio fatto bene. Ma il tempo non è sempre dalla nostra parte!

Quali difficoltà, se esistenti, ti accompagnano in sala doppiaggio, di volta in volta?
Il lavoro che si fa in sala è uno scambio reciproco, una sorta di “do ut des”, tra l’attrice che sta al leggìo, l’attrice in pellicola, il direttore di doppiaggio in regia e, ca va sans dire, anche dell’adattatore, dell’assistente, del fonico e finanche della società. Mi piace notare come l’esito del prodotto audiovisivo non dipenda mai solo dal doppiatore ma da un meraviglioso lavoro di sinergia. Per rispondere alla tua domanda, utilizzo il pensiero di Einstein secondo cui non esistono problemi difficili ma solo complessi e per risolverli serve adottare un metodo più profondo o forse, aggiungo io, occorre semplicemente alleggerire, divertirsi e tirare fuori se stessi. L’arte è un privilegio ma anche una grossa responsabilità.
Hai sempre pensato che questo percorso fosse una reale strada da percorrere? Chi ti ha ispirato?
Non l’ho mai pensato. Non sono mai stata una fan del doppiaggio, e anzi da piccola credevo che gli attori americani nei film parlassero così. Non ho mai cercato una voce di riferimento a cui ispirarmi, perché ho sempre pensato di poter fare qualcosa di diverso con le mie qualità vocali. Sono però attratta dalle voci maschili di Stefano De Sando, Pasquale Anselmo, Stefano Crescentini e Nanni Baldini.
Il 19 ottobre sarai ospite di Marco Bonardelli ne “Suggestioni dal set 12”. Voci al femminile pronte a raccontarsi, in un contesto benevolo, legato al cinema, a situazioni importanti. Quale emozione, quale attesa, a riguardo?
Punto sulla simpatia! Scherzo, sicuramente ringrazio Marco per l’interesse a spalancare con cura e delicatezza una finestra sul nostro mestiere. Non credo sia scontato! Aver scelto di coinvolgermi, accanto a colleghe che fanno questo mestiere da una vita. Sarà un modo per ascoltarsi, conoscersi e condividere, anche perché le occasioni in sala sono sempre poche. Siamo sempre di corsa, e fermarsi ogni tanto per fare il punto, fa anche bene.
Chi è Flavia, quali passioni ti caratterizzano?
Flavia è un quadro astratto su cui sto cercando di dipingere il mio impressionismo.
Anticipazioni, nei limiti del possibile, legate al tuo futuro artistico?
Spero di riuscire a mettere in scena dei monologhi su cui sto lavorando, ma non prometto nulla. Noi artisti siamo sempre così imprevedibili! Per quanto riguarda il doppiaggio, c’è qualche serie, spot pubblicitari e audiolibri in uscita.