Tra i protagonisti di “Even”, l’attrice Romina Mondello, ci parla di ciò che ha suscitato in lei il progetto deal regista Giulio Ancora.
Attrice di spessore la nostra ospite di oggi, Romina Mondello, con noi per parlare dell’esperienza vissuta durante la lavorazione del film “Even” e di quanto sia, purtroppo, diffusa la violenza, intesa ad ampio raggio, non senza rivolgere uno sguardo al suo intenso percorso artistico e passioni che la caratterizzano.
Benvenuta sul quotidiano “La Gazzetta dello Spettacolo“, Romina Mondello. “Even”, il film ad opera del regista Giulio Ancora, ti vede tra i suoi protagonisti al cinema. Parliamo di un progetto toccante, di una tematica importante, legata al femminicidio. Come ti sei preparata ad affrontare questa esperienza?
«Il primo approccio avuto con il personaggio è stato abbastanza semplice. L’ho vissuto da donna, da mamma, essendo realmente nel ruolo di madre di un ragazzo. Nel film interpreto Carla, una donna da sempre sola, al fianco di sua figlia Giulia. Una madre che, come possibile, cerca di sostenere e aiutare questa figlia perché preoccupata dalle tante problematiche che Giulia ha, insieme ad una reale mancanza di concretezza. L’evoluzione del personaggio rappresenta qualcosa di bello nel rapporto tra loro perché riprende vita insieme alla rinascita stessa, emotivamente parlando, di sua figlia».

Preoccupazioni, quelle di cui la pellicola parla, insite sempre più nel quotidiano di oggi…
«Vivo molta preoccupazione, nel mio quotidiano, vivendo tra Roma e Milano. La violenza, in questo mondo, è diventata qualcosa di ordinario, non più legato a ‘semplici’ preoccupazioni legate all’andare in discoteca o in chissà quale altro luogo. Ecco perché oggi parlerei più di violenza in generale, invece che di solo femminicidio. È la società ad essere diventata qualcosa da modificare, andando oltre lo sgomento, la diffidenza, qualsiasi tipo di pericolo.
Cosa ne pensi della tematica trattata, dei segnali che prova a lanciare?
«Come non essere sensibili ad una tematica del genere, a ciò che nel quotidiano accade, a ciò che come società, stiamo diventando? Interroghiamoci su questo, prima di tutto, sull’essere ‘fuori controllo’, soffermandoci, per lo più, sui ragazzi che, a loro modo, non hanno più alcun punto di riferimento. Smettiamola di soffermarci sull’essere, per forza di cose, performanti, alla moda, impeccabili. Il discorso è molto ampio, importante, da approfondire».
Ti ricordo ne “Le ragazze di Piazza di Spagna”, una serie amatissima, al fianco di Vittoria Belvedere e Alice Jane Evans. Un progetto con cui tanti di noi sono cresciuti…
«Sono sempre stata attratta dalle novità, dalle scommesse, anche perché mi davano l’idea di potermi muovere più liberamente, sperimentando, portando in televisione qualcosa di autentico. Ho amato Le ragazze di Piazza di Spagna proprio per questo motivo, perché fare la modella per pura finzione è divertente, come lo è il trucco, i costumi, cose più che distanti da me e che, ai tempi, affascinavano anche la mia persona. Il fascino era tutto lì, in una ragazza di Pompei che diventava una super modella e, in più, c’era il fatto che fosse una serie semplice ma realizzata bene. Nulla era lasciato al caso. Tre ragazze più che complici con il sogno di diventare modelle che, a distanza di anni, affascina ancora lo spettatore. Se la paragoni a tante serie di oggi di certo vince in qualità, in emozione, in tante cose. La preferisco!».
Parte di un’epoca che oggi viene sempre più a mancare con un personaggio, la tua Bianca, che tra tutte spiccava perché vera, onesta, pura, nonostante il successo ottenuto…
«Si, restando pura, se stessa, senza accettare alcun compromesso. Una vera e propria favola!».
Soffermiamoci sul teatro, a cui spesso ti sei dedicata, specie negli ultimi anni. Quali sensazioni ti riportano ad esso, alla magia che si viene a creare prima di essere in scena, ai suoi rituali?
«Il teatro è diventato una casa, il mio luogo safe, per usare un termine importante, in cui posso sentirmi al sicuro e in cui esprimermi liberamente. Un contesto che mi apprezza e che è anche, a suo modo, di sperimentazione, di studio, con i suoi tempi dilatati. È stato così per “Medea”, nato nel periodo del Covid-19 e poi portato in scena in contesti particolari, incredibili, come per “Jackie”. Per me il teatro è pura vita, un’esigenza importante, seppure non semplice. Tornando proprio al periodo in cui ho portato in scena “Jackie”, posso dirti che si è trattato di un testo non semplice, adattato con il supporto di Emilio Russo, che ha portato nello spettatore un continuo meravigliarsi. Questo perché Jackie Kennedy non trova sin da subito un percorso di leggera empatia. Potrei parlarti del teatro all’infinito, continuando a perdermici…».
Un sentimento forte, quello che nutri per il teatro, la tua voce ne è la prova…
«Gli anni ci sono, l’esperienza anche, così come i ruoli, ma è importante cosa ti porti dentro, più che altro. Ho troppa vita passata addosso per poter raccontare qualcosa con superficialità. Il teatro mi consente di poter ‘regalare’ dei personaggi incredibili, cosa di cui sono alla costante ricerca. Passo giornate intere a leggere, a cercare vite da far vivere sulla scena, anche se talvolta sembra impossibile perché qualcuno ha già pensato di far vivere quel qualcosa, oppure si ha difficoltà nel trovare i diritti. Però, questa costante ricerca, costituita anche da tanta curiosità, mi riempie da sempre la vita».
Sono tra quelle persone che avrebbe piacere di ritrovarti sempre più in televisione…
«Sono in tanti a dirmelo ma non amo fare delle cose che non sento essere a me affini. A capirlo, anni fa, Terrence Malick, durante il periodo di lavorazione di in “To the Wonder”. Ebbe chiara la mia necessità di dover essere totalmente capita, diversamente non riesco a dare tutta me stessa. Mi è capitato anche durante il periodo in cui ero a RIS – Delitti imperfetti. Di quel personaggio avevo raccontato la qualunque e lì ci stavo bene, mi sentivo apprezzata, ma alla richiesta di prendere parte anche a RIS Roma ho sentito la forte necessità di uscirne. Non c’era altro da dire. Oggi posso dirti che quando non sono impegnata in teatro insegno a delle ragazze ginnastica ritmica, divertendomi a lavorare sulla loro espressività corporea, qualcosa che mi regala una grande soddisfazione. Questo perché recitare per me non rappresenta una necessità economica ma una pura esigenza personale…».

Chi è Romina al di là del suo mestiere?
«Sono una persona estremamente complessa, fatta di moltissime cose, pronta a combattere la noia e in questo, forse, sono molto contemporanea. Ho dentro me una forte necessità di creare, che si parli di dipingere, di tagliare la stoffa, e forse tanto devo alla mia famiglia, a mio padre, che era un antiquario, un restauratore. Anche per questo, forse, amo l’odore delle tavole del palcoscenico, la segatura, un semplice odore ancestrale, così come amo la ricerca dei prodotti genuini, che devo a mia nonna, da cui ho appreso l’amore per la cucina. Devo fare cose, devo creare, che sia un vestito, un mobile, un qualsiasi abito di scena. Difatti, sono artigiana anche nei miei spettacoli, dall’inizio alla fine, e così è stato anche con Jackie e Medea. Tanto di questo mio essere devo al fatto di essere diventata indipendente da subito, da ragazza, in una continua ricerca dell’essere, dell’essenza, senza esserne schiava, questo no».
Una donna certa del cammino intrapreso…
«Ho un carattere forte, che si è forgiato nel tempo. Ho imparato a sopravvivere alle mie fragilità».
Quali maggiori consapevolezze ti ha regalato questo mestiere?
«L’accettazione, qualcosa di fondamentale in questo mestiere! Tornando al tema principale dell’intervista, “Even”, credo che tanti femminicidi, tante situazioni poco piacevoli, si verificano proprio perché non viene accettato un no, il fatto di non piacere, il fatto che ora non sia il nostro momento, in ogni ambito, in ogni situazione. Questa ostinazione, se vogliamo imposizione, non è sana, non porta che ad una distruzione».
Puoi anticiparci qualcosa sui tuoi prossimi impegni?
«Ho in mente uno spettacolo che al momento è ancora in fase di costruzione. Sono alla ricerca di un equilibrio da donargli, da creargli intorno».
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