Andrea Serge è il regista di questa pellicola assai gradevole, di impatto lento e solo in apparenza silenzioso, ma denso di emozioni e vissuti che partono da lontano, sia in senso metaforico che in senso squisitamente geografico. E’ un comunicatore di professione (docente di Sociologia della Comunicazione a Bologna) ed è ,fin dal 1998, attento al genere documentaristico con il quale pone l’accento sulla marginalità di etnie, popoli e culture (vedi “Io sono Li”, vincitore del Premio Franco Cristaldi, 2012).
In questo film sono molte le minoranze che interagiscono, muovendosi all’interno dello splendido scenario di una vallata del Trentino che è già, per cultura, lingua e costumi, una minoranza etnica ora riconosciuta dallo Stato Italiano: i Mocheni. Popolazione non autoctona, dunque non italiani, la Storia e la lingua li definiscono come immigrati tedeschi giunti in epoca medievale sul nostro territorio in quanto grandi lavoratori, impiegati nel processo di antropizzazione della vallata, dalla quale poi non si sono più mossi, stabilendo una comunità ben radicata, a tutt’oggi bilingue (italiano e mocheno, di derivazione germanica).
Spesso ci riferiamo con queste stesse parole, agli uomini e alle donne delle nuove ondate migratorie che raggiungono il nostro paese (non italiani, immigrati, grandi lavoratori) e che portano sulle spalle il peso di una cultura diversa e di inimmaginabili dolori, come Dani, interpretato da Jean-Christophe Folly, (nato in Togo, si imbarca con la moglie incinta per sfuggire agli orrori della guerra libica ma la traversata peggiora lo stato di salute della moglie, tanto che morirà subito dopo il parto) che, in attesa dell’asilo politico, viene accolto da un anziano apicoltore e dalla sua famiglia, colpita anch’essa da un lutto di cui tutti portano ancora i segni: la scomparsa del figlio, per un incidente in montagna.