A tu per tu con l’attore Adriano Falivene, interprete del ruolo “Bambinella” nella fiction di successo “Il Commissario Ricciardi”.
Oggi siamo in compagnia del fantastico Adriano Falivene, che in tantissimi hanno apprezzato ed amato per il suo straordinario ruolo di Bambinella nella fiction “Il Commissario Ricciardi“.
Adriano è un artista partenopeo, versatile ed eclettico, nasce nel cuore di Napoli, in Via San Biagio dei Librai, ed il suo percorso professionale prende vita da giovanissimo.
In questa piacevole intervista, dove ho avuto modo di apprezzare anche la bellissima persona che si cela dietro l’artista, Adriano ha raccontato un po’ di più della sua vita, delle sue passione e dei suoi sogni.
Bentornato sul quotidiano “La Gazzetta dello Spettacolo” ad Adriano Falivene. Quando ti accorgi di amare la recitazione, di avere questo talento?
«Me ne sono accorto al liceo artistico. C’era da parte mia un tentativo di esprimersi, pur essendo una scuola dove si allenava l’arte figurativa; solo che l’arte figurativa, in qualche modo, mi ha deluso un po’. Forse mi aspettavo una sorta di, non so come dire, meritocrazia nell’arte figurativa, cosa che invece ho trovato nel teatro perché c’è un contatto diretto tra spettatore e artista, cosa meno palpabile nell’arte figurativa».

Se dovessi scegliere tra teatro e set cinematografico?
«Tra cinema e teatro ci sono delle differenze nei canoni di rappresentazione, però alla base di tutto io credo valga il come si fa, come si può raccontare quella storia. Non sceglierei nettamente tra teatro e cinema, perché alla fine tutto dipende da come lo fai, con quale squadra lavori, ma rispetto all’arte figurativa sicuramente sceglierei questi tipi di mezzi per raccontare una storia.
Ogni tanto mi manca scolpire, dipingere, a volte faccio un disegno, ma lo faccio più per una “cosa personale”; per esempio lo faccio per Alessandro, piuttosto che per un maestro… quando sento l’esigenza, quando mi viene voglia di disegnarli, di dipingere le persone che amo. Ogni arte risponde ad un’esigenza diversa, per me».
Cosa ha rappresentato per te Bambinella, e quanto è stato difficile il suo personaggio?
«Allora, io ho avuto sicuramente la benedizione di Alessandro D’Alatri, e devo ringraziare innanzitutto lui per avermi dato la possibilità di interpretare il ruolo di Bambinella.
Devo ringraziarlo anche per avermi indirizzato e, come dire, aiutato poi con il teatro, soprattutto ad approfondire sia l’aspetto umano che quello “paranormale” di Bambinella.
Ho lavorato con Alessandro in maniera molto intima e personale.
Partendo da tanti testi così preziosi, quando ho saputo che avevo questa possibilità, mi sono andato a fagocitare tutti i romanzi nel modo più veloce possibile ma in modo accurato, per quanto poco fosse il tempo.
In seguito ho avuto più tempo sia per la preparazione, che per lo studio.
Devo ringraziare anche i miei maestri in Accademia, i quali mi hanno dato degli strumenti molto particolari, difficili da riassumere, però posso dire che ho lavorato sulla memoria emotiva, su tutto quello che le donne hanno per me sempre significato: una madre, un’amica, un’amante, tutto quello che potesse evocare la poesia del mondo femminile.
In certi momenti sembra che Bambinella voglia sedurre Maione, ma in realtà è più una preoccupazione affine ad una madre; diventa quasi la mamma di Maione, ed il suo giocare a sedurlo nasconde, in realtà, proprio questo affetto che deriva dal fatto che Maione le dà un senso di vita, di giustizia, di rivalsa e di rivincita.
Pian piano vediamo che questa cosa diventerà sempre più forte e ne sarà coinvolto anche il commissario. Lei, nel tempo, si sentirà sempre più parte di questa squadra dei buoni insieme a Modo, allo stesso commissario Ricciardi, che in qualche maniera la legittima.
Questo affetto cresce in maniera reciproca, e quindi anche nel tragico epilogo di questa terza stagione, benché non si veda, c’è qualcosa che coinvolge Bambinella, che strazia anche lei. Lei, non avendo nessuno e niente, vede in tutte quelle persone che le stanno popolando la vita, il suo tutto.
Un po’ come accadde con Tettè all’inizio: il semplice fatto di essere un bimbo orfano, lo spinse a rischiare la vita, a mettersi in gioco, a provare a risolvere un caso».

C’è stato un episodio nel corso delle puntate che ti ha particolarmente coinvolto?
«Io personalmente ho avuto una grande difficoltà nella seconda stagione, perché venne a mancare mio padre proprio mentre stavamo girando.
Nell’episodio in cui Maione va da Bambinella e la trova ferita perché l’avevano picchiata, al di là della sofferenza recitata per seguire il copione del romanzo, dentro di me stavo male della mia personale sofferenza.
In quel periodo, durante quell’episodio, ero particolarmente provato… e la sofferenza di Bambinella è stata proprio la mia sofferenza, un mezzo che mi ha fatto da valvola di sfogo».
Come hai vissuto questo finale di stagione?
«Devo dire che questo finale mi ha scosso non poco perché pur conoscendolo, pur sapendo tutto… non ho voluto vedere il montato dell’episodio conclusivo. Ho avuto anche io “la sorpresa” da parte dei miei meravigliosi colleghi, i quali hanno affrontato queste scene in maniera incredibile.
L’ultimo episodio è iniziato alla grande: “Il pianto dell’alba”, anche per la scrittura di Maurizio De Giovanni, è qualcosa di sublime, succedono talmente tante di quelle cose… incredibile. E devo ringraziarlo ulteriormente perché, nei romanzi finali, Bambinella è sempre presente. C’è stato un innesto che l’ha resa più partecipe, infatti se si legge il romanzo “Il pianto dell’alba” non avviene nessun incontro tra Bambinella e Ricciardi, al quale si presenta svelando anche il suo nome: questo è stato un altro grande regalo che mi ha fatto Maurizio».

Tu hai fatto anche molto arte di strada: che cosa ti ha insegnato questa esperienza?
«Devo dire che in teatro è oggettivo: gli attori, gli interpreti, anche le maestranze salgono sul palco e si elevano per rappresentare, come diceva Edoardo, “La copia perfetta della realtà”. Invece in strada non c’è questa possibilità materiale di elevarsi, bisogna farlo in un altro modo. Quando temi di non si riuscire ad attirare l’attenzione delle persone, e poi d’improvviso riesci a smuovere qualcosa, è come se accadesse una magia, come se le persone “spixellassero”.
Siamo tutti troppo presi dai cellulari, tutti proiettati all’introversione, non so come dire, e scusami se invento le parole ma lo faccio per rendere meglio l’idea… mi pare che, se improvvisamente vedono un clown camminare in equilibrio su una sfera, proprio come nei bambini, a volte anche negli adulti scatta una scintilla ed il loro sguardo non è più proiettato solo verso l’interno, e si illumina.
La cosa che a me è mancata durante il periodo del Covid era proprio questo, era proprio quell’elettricità che si genera quando scatta l’interesse, la curiosità. In teatro è evidente, lo percepisci in maniera diversa: con un applauso a scena aperta, o con una grande risata… in strada è diverso.
Da quando avevo 18 anni ho iniziato a lavorare in teatro, fortunatamente, e non mi sono mai fermato, poi è arrivato il Covid e per sei mesi ho avuto una sorta di crisi di astinenza. Ero già un artista di strada, ma non in maniera definitiva. Aspettavo sempre un cachet, aspettavo dei festival, invece ad un certo punto, appena ci hanno “sbloccato” mi sono lanciato in strada proprio perché volevo mettermi alla prova».
C’è un personaggio che ameresti poter interpretare, ma per cui non hai ancora avuto la possibilità?
«Io amo molto trasformarmi. Mi piacerebbe interpretare qualche personaggio, a questo punto lontano da Bambinella, ma semplicemente per rispettarla, per omaggiarla: è una cosa molto diffusa pensare che un artista “funziona nell’interpretazione di determinate caratteristiche”, il che porta a volerlo etichettare, a volerlo portare sempre nelle stesse corde.
Ad esempio, io amo tantissimo gli attori che si trasformano totalmente: Joaquin Phoenix passa da Johnny Cash a Joker, al personaggio dimesso di Air, fino a essere tutt’altro! Lo vedi, poi, ingrassare e diventare una rockstar depressa…
Mi piacerebbe essere un fighter, un personaggio storico, oppure San Francesco con cui troverei assonanze di Bambinella, essendo sensibilissima ed amante degli animali. Non bisognerebbe rimanere intrappolati nei personaggi che ti hanno fatto conoscere.
Spesso capita che se interpreti con successo un criminale, poi ti chiederanno sempre di interpretare dei criminali perché hanno funzionato.
Detto questo, io mi auguro che Maurizio scriva altri cento romanzi al più presto, e questa è un’altra cosa che non mi spiego: in un momento quasi futurista, dove la soglia d’attenzione è di 15 secondi… le persone hanno aspettato Ricciardi per ben due anni e lo aspetteranno nuovamente, il che è una soddisfazione enorme, i nostri personaggi hanno fatto breccia.
La seconda stagione ha vissuto un momento difficilissimo perché c’è stato un passaggio di testimone non previsto, ed il regista Gian Paolo Tescari, dopo la grande responsabilità del dover reggere il confronto con Alessandro, è riuscito a raccogliere grandi gratificazioni.
Un’altra cosa molto positiva: la presenza di Maurizio. Proprio da questa stagione infatti, è stato molto attivo, collaborando anche alle sceneggiature. Si può dire che “Il Commissario Ricciardi” è una delle poche fiction che ha messo tutti d’accordo. Sicuramente il finale avrà scontentato parecchie persone, che forse si aspettavano il lieto fine… ma comunque si è vissuta un’emozione molto forte. Le persone hanno pianto, e quelle che devono ancora vederlo piangeranno, ed è giusto che sia così. A volte, pur sapendo che si tratta di finzione, trasformiamo il nostro dolore. Ieri io mi sono sentito appagato, non solo come attore ma anche come telespettatore: ho pianto e ho ringraziato tutti, ho ringraziato Maria Vera… è stato tutto così forte, potente, nonostante sapessi il finale, e riallacciandomi al discorso iniziale, la cosa più importante è avere la giusta squadra. Non importa se sia teatro, cinema, tv… possiamo pure fare arte di strada, succederà sempre la stessa cosa se hai la giusta squadra. Tutto quel dolore diventa poesia, per noi che lo facciamo e anche per chi ci guarda».
Mi hai detto che durante la scena in cui eri stata picchiata, e Maione era venuto in tuo aiuto, eri sconvolto per la perdita di tuo padre. Io ho perso mia mamma da qualche mese, e non ti nascondo che quando vedo queste scene, è come se ne “approfittassi” per sfogare anche il mio dolore, cosa che durante la giornata evito di fare per il lavoro, per non pesare sui familiari; è come se fosse una scusa, un rifugio, che unisce il dolore della finzione al tuo, una vera valvola di sfogo…
«È proprio questo, è anche questo l’intento… l’hai detto molto meglio di me. Quando funziona ne hai la sensazione. A me non piace il termine “funziona”, che spesso si usa in gergo cinematografico, perché per me “funzionare” vuol dire “esorcizzare un male”, farlo diventare poesia, motivo per cui poi le persone ringraziano. Lo stesso si vive in strada: quando sono da clown e vedo un muratore che sta andando a lavorare, tutto sporco e pieno di pensieri, gli faccio fare una risata e per un attimo gli ho regalato il rifugio di cui parli tu. Esorcizzare il dolore, avere comunque una carica».
Adriano, una fragilità con cui pensi di aver fatto pace.
«Ho fatto pace con l’idea di non dover necessariamente stare insieme a qualcuno, ho fatto pace con la mia solitudine, e questo anche grazie a Bambinella. C’ho fatto talmente tanto pace che adesso forse ho pure un po’ di difficoltà a stare con chi non mi va.
Ho avuto tanta difficoltà in passato anche per “debolezza”, per un’educazione malsana. Si sta insieme a persone anche quando ci si è resi conto che, semplicemente, non stai più bene. Forse lo fai per altro, per abitudine, per non stare solo».
In conclusione ti chiedo dei tuoi progetti futuri e dei desideri che vorresti realizzare.
Al momento siamo in scena con “Finché giudice non ci separi”, una commedia di Augusto Fornari, con protagonista Biagio Izzo.
Siamo quattro amici che, per una ragione o per l’altra, si ritrovano separati. Una rappresentazione teatrale molto divertente, anche se Biagio si è scelto un personaggio drammatico e questo è davvero molto interessante, perché chiaramente da Biagio ci si aspettava la vitalità, l’allegria. Il ruolo che ricopre è abbastanza drammatico.
Da febbraio, invece, saremo in scena con una nuova produzione del Teatro Diana, che è Jucatùre, sempre con Antonio Milo, questa volta non nei panni di Maione e Bambinella ma bensì di amici; anche in questo caso saremo in quattro.
Jucatùre, è un testo già andato in scena nel 2011 con Renato Carpentieri e la regia sempre di Enrico Ianniello, che era altresì nel cast; in questa “nuova” versione, invece, si occupa esclusivamente della regia, mentre in scena con noi ci sono Marcello Romolo e Giovanni Allocca… e ti dico la verità, non vedo l’ora di cominciare questo nuovo progetto con Antonio Milo, che adoro! Diciamo che è anche un modo per ricontrarci come sul set di Ricciardi perché c’è Modo, c’è Maione… insomma, un po’ di Ricciardi me lo ritrovo, per fortuna.
Per quanto concerne un mio desiderio… quello che mi piacerebbe da sempre fare, e che ho detto anche a Maurizio, è realizzare uno spazio, addirittura una Tensostruttura, un circo dedicato ai maestri, anche ad Alessandro D’Alatri. Mettere su uno show su Bambinella, il suo circo, una roba totalmente fuori dal contesto di Ricciardi, chiaramente.
C’è anche un altro sogno… prima che Alessandro morisse, avevamo in cantiere un film che dovevamo realizzare. Io mi auguro sempre di poterlo fare. Alessandro avrebbe dovuto anche recitarci, ed ora è un po’ tutto più complicato, in quanto sarebbe difficile trovare un attore che interpreti Alessandro, il capitano…».
Grazie di cuore a Adriano Falivene, grazie per la sua disponibilità e per aver aperto il suo cuore a noi… non possiamo che continuare a seguirlo, ad apprezzare la sua bravura, augurandogli di poter vedere realizzati quanto prima i suoi sogni.
La Gazzetta dello Spettacolo Il quotidiano dello ShowBiz


