In una terra di confine, in cui religioni e culture si mescolano, Amos Gitai appronta un ritratto sottile e delicato sul Medioriente al giorno d’oggi attraverso il suo Ana Arabia, in Concorso alla 70. Mostra del cinema di Venezia. Un film molto particolare e complesso nella sua “semplicità”, che ha parecchio fatto discutere critica e pubblico.
Ad un anno di distanza dal difficilissimo e molto intimo Lullaby to my father, presentato al Lido in Orizzonti, Gitai torna al cinema di finzione con un particolare esperimento. Ana Arabia è girato completamente in un unico piano sequenza e si tratta in sostanza del “girovagare” di una giornalista – interpretata dalla bellissima Yuval Scharf – che seguiamo passo per passo all’interno di una comunità. Questa la sinossi dal sito della Biennale:
Girato in un unico piano sequenza in formato 1:25, Ana Arabia è un momento nella vita di una piccola comunità di reietti, ebrei e arabi, che vivono insieme in un angolo dimenticato da tutti al “confine” fra Jaffa e Bat Yam, in Israele. Un giorno una giovane giornalista, Yael, li va a visitare. In quei tuguri cadenti, nell’agrumeto pieno di alberi di limoni circondati da palazzoni, Yael scopre una serie di personaggi lontanissimi dai soliti cliché della regione e sente di aver trovato una miniera d’oro di umanità. Si dimentica del suo lavoro. I volti e le parole di Youssef e Miriam, di Sarah e Walid, dei loro vicini, dei loro amici, le parlano di vita, di sogni e speranze, di amori, desiderio e disincanto. Hanno un rapporto con il tempo che è diverso da quello della città che li circonda. In questo luogo di fortuna, fragile, esiste la possibilità di convivere. Una metafora universale.