The Lunchbox: un pretesto per amare

Questa pellicola, uscita nelle sale  indiane nel 2013, rappresenta una bella finestra su un mondo vasto dal punto di vista culturale, degli usi e dei costumi, ma poco conosciuto ai più. Lontanissimo dai fasti delle produzioni bolliwoodiane, questo film non è un musical eppure non manca la musica, da sempre fattore aggregante nella cultura indiana ma non solo; non mancano  matrimoni con famiglie numerose,  fastosi abiti e gioielli preziosi, dalla fattura (per noi) esotica eppure si incontra, con una certa sorpresa, anche la coppia convivente, costretta al more uxorio dalla mancata benedizione paterna alle nozze.L’amore come leit-motiv, dunque,  ma ben lontano dall’immagine stereotipata che si ha in Occidente  della cultura indiana; un tentativo, da parte degli sceneggiatori (R. Batra e R. Oza) di mostrare la commistione tra tradizione e modernità, oppure il racconto, efficace nella sua basicità, di un mondo (quello indiano) che si è contaminato accanto ad altre culture, e che ,suo malgrado, vive le contraddizioni che appartengono a tutti gli uomini del pianeta.

 Ila (Nimrat Kaur), infatti, pone in essere un disperato -e ingenuo- tentativo di riconquistare suo marito , di cui sospetta l’infedeltà, attraverso la preparazione di piatti succulenti che gli verranno recapitati per l’ora di pranzo da appositi fattorini. Assai felici sono le scene in cui Ila parla con sua zia, di cui nel film si palesa solo la voce, e che vive al piano superiore dello stesso condominio; le donne si scambiano ricette, consigli sulle spezie e prelibati ingredienti solo ed esclusivamente dalla finestra, spesso a gran voce, nonostante abitino in un quartiere indù di estrazione borghese. I dabbawalla attraversano la città su mezzi di fortuna (carretti, biciclette, treni) per portare il pranzo ai loro clienti all’interno di questi particolari cestini in inox e sono orgogliosi di essere stati oggetto di uno studio dell’Università di Harvard, con il quale si è stabilito che il margine di errore è di uno ogni 6 milioni di consegne; eppure l’errore accade, e il pranzo preparato da Ila finisce nelle mani di Saajan (Irrfan Khan), direttore della contabilità di una grossa azienda, ad un passo dalla pensione. Vedovo, triste, solo ma intelligente e di modi garbati, è il vero io narrante del film: se da un lato intreccia un rapporto amichevole ma difficile col suo sostituto, dall’altro, dopo una serie di equivoci, comprende che il suo cestino del pranzo non parte dal ristorante dove è solito prenotare, ma da mani sconosciute ed esperte, che cucinano con amore per qualcun altro.

Nell’era della digitalizzazione dei sentimenti, dei telefoni cellulari e dei social networks, questi due sconosciuti si scrivono lettere educate, di maniera quasi ottocentesca e le nascondono all’interno dei cestini; Ila comincia a rispondere in maniera sempre più personale, mentre suo marito, totalmente disinteressato alla vita della famiglia, si reca in camera da letto per rispondere alle telefonate dell’amante. Come in ogni chat-story che si rispetti, anche questi novelli Giulietta e Romeo decidono di incontrarsi a pranzo; e, come spesso accade, uno dei due resta nascosto ad osservare l’altro senza essere visto, per paura di un giudizio negativo. Si litiga e ci si riappacifica, mentre i lunchboxes corrono da un capo all’altro di Mumbai senza sosta, esattamente come fa la Vita quando costringe gli attori a prendere decisioni fuori copione, come succede a Ila.

Lui cerca di restare razionale, pensando alla sua non più verde età rispetto a quella di lei, accetta il pensionamento e si trasferisce in una città meno caotica; ma lei, come buona parte delle donne sanno fare fin dalla notte dei tempi, si mette in gioco dopo lo shock della morte del padre, dopo aver compreso quanto fosse stata infelice sua madre al suo fianco e prova a raggiungerlo, insieme a sua figlia.

Il finale aperto lascia la possibilità al pubblico, sempre sovrano, di uscire dal cinema  con la convinzione che si siano ritrovati, in quella città più tranquilla, in una casa con un terrazzo dove poter giocare, in un angolo di mondo dove potersi amare. Perchè forse è vero che “il treno sbagliato ti porta alla stazione giusta“.

Su Monica Lucignano

Redattore

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