Incontriamo nuovamente Francesco Fiumarella, direttore artistico del “Premio Vincenzo Crocitti Internazional”.
Francesco Fiumarella, attore esperto di Cinema a tutto tondo e direttore artistico del prestigioso Premio Cinematografico “Vince Award” noto anche con il nome di “Premio Vincenzo Crocitti Internazional”. Il quale nasce prettamente con lo scopo di promuovere e premiare sia artisti emergenti che volti noti, dei settori artistici, sportivi e culturali.
Da anni Fiumarella si batte per la valorizzazione del settore artistico- cinematografico, con l’obiettivo di mettere in luce talenti nascosti. In questa intervista sul nostro quotidiano di cui è spesso ospite, facciamo una chiacchierata sulla meritocrazia.
Bentornato a Francesco Fiumarella sul quotidiano “La Gazzetta dello Spettacolo”. Nel tuo DNA ci sono delle origini calabresi. Quanto ti senti legato ad esse, non solo da un punto di vista di background ma anche affettivo?
«Pur essendo nato in Calabria e avendoci vissuto solo pochi mesi, quel legame non si è mai affievolito: per me la Calabria è soprattutto il ricordo dei miei nonni. È la presenza dolce e forte di mia nonna materna, con la quale avevo un rapporto speciale, forse perché ero il suo primo nipote, e quella più silenziosa ma fondamentale di mio nonno, con cui facevo lunghe passeggiate al mercato. La Calabria, per me, era la vacanza estiva: il mare, la montagna, gli odori e i sapori che ti formano senza che tu te ne accorga. Da lì ho appreso l’altruismo meridionale, l’ospitalità genuina, ma anche la sensibilità e la determinazione che caratterizzano quella terra. Ho ricordi vivissimi: la ricotta di pecora calda che arrivava a casa dei miei nonni, il latte, le uova fresche, i dolci, il latte di mandorla… piccoli tesori di un mondo che oggi vive nella memoria. E la verità è che, purtroppo, i miei nonni non ci sono più, e proprio per questo sento ancora più forte il legame con loro: per me la Calabria sono loro. È grazie a loro se ancora oggi capisco e parlo il dialetto, quasi fosse un modo per non dimenticare le mie origini e il luogo in cui sono nato. La mia vita poi si è divisa tra Parma e Brescello durante l’infanzia e l’adolescenza, fino ai miei 17 anni, e da allora Roma è diventata la mia casa. Per questo dico sempre che sono legato a tutto: porto dentro ogni tappa della mia esistenza e mi sento italiano al 100%. Non dimentico dove sono nato, dove sono cresciuto e come sono cresciuto. Tutto fa parte di me, e io porto con me ogni radice con gratitudine».
C’è un film in cui hai lavorato oppure che hai visionato, che ha lasciato in te, anche da un punto di vista empatico, un segno importante?
«Un film che ha lasciato in me un segno profondo, anche sul piano empatico, è senza dubbio Arancia Meccanica di Stanley Kubrick. Non solo rientra tra i miei preferiti, ma rappresenta uno dei casi più emblematici in cui la regia, la fotografia, il linguaggio visivo e la costruzione psicologica convergono in un’unica, potente riflessione sul libero arbitrio. Kubrick scolpisce ogni inquadratura con una precisione chirurgica: le simmetrie, i grandangoli, l’uso del colore e il contrasto tra violenza e musica classica creano una dissonanza emotiva che entra sotto pelle e ti costringe a interrogarsi sul significato profondo di ciò che stai osservando. Dal punto di vista empatico, il film mi ha colpito perché riesce a portarti dentro la mente di Alex senza mai giustificare le sue azioni, ma invitandoti a riflettere sul confine tra scelta, responsabilità e manipolazione. L’esperimento del trattamento Ludovico è un esempio di cinema che non si limita a essere narrativo, ma diventa filosofico, etico e psicologico allo stesso tempo. Per quanto riguarda invece i film in cui ho lavorato, devo ammettere che non ho mai trovato una vera empatia con i personaggi che mi venivano affidati. Ho sempre recitato cercando di soddisfare le esigenze dei registi, di essere professionale e rispettoso del set, ma non ho mai sentito quella connessione profonda che alcuni attori descrivono. Nella mia breve carriera recitativa avrei voluto interpretare ruoli che sapevo avrei potuto rendere al meglio, personaggi più vicini alla mia sensibilità o alla mia visione artistica. Ma, come dico sempre, va bene così. Da bambino sognavo di fare l’attore, di lavorare nelle fiction e di arrivare al cinema. Quei sogni li ho realizzati, e una volta raggiunti ho capito che non era quella la mia reale aspirazione professionale. È stato un percorso prezioso, che mi ha insegnato molto, ma che mi ha anche permesso di comprendere qual era davvero la mia strada».
Nel 2013, hai dato vita al prestigioso Premio dedicato all’attore Vincenzo Crocitti. Cosa ha rappresentato per te, l’attore che ha commosso tutti per l’interpretazione della pellicola di Monicelli, Un borghese piccolo piccolo?
«Ho avuto la fortuna di conoscere Vincenzo Crocitti proprio nel periodo in cui recitavo. In lui non vedevo soltanto il volto noto delle fiction o l’attore popolare amato dal pubblico: vedevo soprattutto l’uomo. La sua umanità, la sua umiltà, la sua solidarietà e il suo altruismo erano qualità straordinarie, che si percepivano subito. Pur avendo una carriera imponente alle spalle, non lo ostentava mai. Si comportava come una persona normalissima, con una semplicità che è propria solo dei più grandi. E questo, per me, è stato un insegnamento fondamentale. Dopo la sua scomparsa nel 2010, ho sentito fortissimo il desiderio, e la responsabilità, di non lasciare che il suo ricordo svanisse. Così, tre anni dopo, nel 2013, insieme al comitato che condivide con me la passione per l’arte e la memoria, abbiamo istituito il Premio Vincenzo Crocitti. Il nostro obiettivo era chiaro: mantenere vivo il suo nome e il suo spirito, far conoscere alle nuove generazioni non solo la sua grandezza professionale, ma soprattutto quella umana. Una cosa che mi accomunava molto a lui era la propensione a dare opportunità agli artisti emergenti. Vincenzo aveva un occhio speciale per chi stava iniziando, per chi aveva talento ma non ancora visibilità. E questo è uno degli aspetti fondamentali su cui si basa il Premio Vincenzo Crocitti International – Vince Award: dare spazio a chi merita, perché in Italia, purtroppo, la meritocrazia è spesso una conquista difficile. Il nostro altruismo nasce proprio da questo: offrire almeno una possibilità a chi vive “nell’ombra”, e allo stesso tempo non dimenticare le grandi carriere, premiandole e valorizzandole. Durante la pandemia siamo stati l’unico premio a consegnare attestati a quasi 200 artisti, un gesto che per noi significava dare speranza, motivazione, un segnale di vicinanza in un momento in cui molti si sentivano smarriti. Credo che l’esempio di Crocitti ci abbia guidato proprio lì: nel ricordare che l’arte è prima di tutto condivisione, sostegno, presenza. Per me Vincenzo Crocitti rappresenta un modello raro, sia come artista sia come essere umano. Un attore capace di commuovere con profondità in Un borghese piccolo piccolo, una delle interpretazioni più intense del nostro cinema, e una persona che sapeva lasciare tracce indelebili nel cuore di chi lo incontrava. Un abbraccio a Vincenzo, ovunque lui sia. Continuiamo a portarlo con noi, un premio alla volta, un artista alla volta».
Parliamo di un tema a te caro la Meritocrazia, a cui hai dedicato e interpretato il brano La Ballata della Meritocrazia. A te la parola.
«La meritocrazia è una battaglia che porto avanti da molti anni, non per moda o convenienza, ma perché rappresenta un principio fondante del mio modo di vivere l’arte, il lavoro e la società. A un certo punto, però, ho sentito la necessità di fare qualcosa di ancora più diretto: scrivere una canzone scomoda, che mettesse nero su bianco ciò che molti pensano ma pochi hanno il coraggio di dire. Così è nata La Ballata della Meritocrazia: un brano che ho voluto affidare a due artisti straordinari, Maria Rossi alla voce e Riccardo Rossi alla composizione, professionisti di altissimo livello che ho scelto perché incarnano, con la loro qualità e disciplina, proprio quei valori che difendo. Anche il videoclip, girato dalla regista Valentina Galdi, è parte integrante di questa visione: sincero, pulito, coraggioso. Ma ci tengo a dirlo con chiarezza: questa canzone è un plus, una testimonianza, un inno alla meritocrazia che resterà a prescindere. Che venga ascoltata o no, non mi interessa. È lì come monito, come simbolo, come atto di coerenza. La mia vera battaglia è, e rimane , quella quotidiana. Perché parlare di meritocrazia in Italia è durissimo. Più che durissimo, è scomodo. C’è omertà, c’è paura, c’è la convinzione diffusa che sia meglio “non disturbare il sistema”. Solo l’altro giorno ho scritto uno dei miei tanti pensieri pubblicato su una storia Instagram del mio profilo proprio su questo: è inutile che attori e attrici, anche di 40, 50, 60 anni, con talento e anni di studio alle spalle, continuino a lamentarsi se poi accettano di essere scelti solo come comparse o figurazioni speciali, senza mai denunciare le dinamiche che li tengono ai margini. Dicono: “Se parlo, poi non mi chiamano più.” Ma la domanda che pongo sempre è: ti chiamano per cosa, esattamente? Se già non ottieni ruoli importanti, se già vieni relegato ai margini nonostante la tua preparazione, cosa cambia davvero? Il silenzio diventa complicità. E la complicità diventa terreno fertile per quel sistema che continua a premiare i soliti, a blindare opportunità, a soffocare chi meriterebbe davvero di emergere. Io credo profondamente che non ci si possa lamentare senza avere il coraggio di denunciare. Il cambiamento non arriverà mai se chi vive certe situazioni non decide di portarle alla luce. Ecco perché continuo a parlare, a scrivere, a creare, a “combattere” artisticamente. Perché un Paese che non difende il merito è un Paese che rallenta le sue energie migliori. E finché avrò voce, nelle parole, nella musica, nelle idee ,continuerò a usarla per questo. Perché la meritocrazia non è un sogno ingenuo, è una responsabilità. E come ogni responsabilità, va esercitata anche quando costa. Anche quando fa paura. Anche quando sei l’unico a farlo».
Da qualche alcuni doppiatori, stanno portando avanti la loro battaglia sulla meritocrazia nel doppiaggio, in cui si prediligono persone uscite da talent o volti noti, per doppiare ogni genere di film, a scapito di chi si è duramente formato e ha esperienza nel settore. Cosa ne pensi in merito?
«Il dibattito sulla meritocrazia nel doppiaggio è non solo legittimo, ma necessario. Parliamo di un settore altamente specialistico, dove non basta la popolarità o la visibilità televisiva: il doppiaggio richiede competenze tecniche profonde, dizione, recitazione vocale, adattamento, sincronizzazione, gestione ritmica e interpretazione psicologica del personaggio. È un mestiere che si costruisce negli anni, con sacrificio e studio costante. Quando si privilegiano figure provenienti da talent show o semplicemente “volti noti” per motivi di marketing, si compie un’operazione che va contro la qualità del prodotto e, soprattutto, contro chi ha dedicato una vita intera a questo mestiere. Per questo do pienamente ragione ai doppiatori professionisti che rivendicano una maggiore giustizia e trasparenza nelle assegnazioni dei ruoli. E permettimi di aggiungere una nota personale: tra coloro che stimo profondamente c’è Lilli Manzini, un’amica e una professionista che ho anche premiato nel 2021 per il suo impegno instancabile. Lei, più di molti altri, ha avuto il coraggio di esporsi pubblicamente, denunciando storture del sistema e difendendo la meritocrazia con coerenza e determinazione. Le sue battaglie sono sacrosante e mi trovano assolutamente d’accordo. Ma oggi c’è un’ulteriore minaccia che si aggiunge a quella dei favoritismi: l’uso scorretto o incontrollato dell’intelligenza artificiale nel doppiaggio. La tecnologia può essere uno strumento utile, ma se usata per sostituire voci umane, identità artistiche, anni di formazione e unicità interpretativa, allora diventa un problema enorme. Il doppiaggio non è “riprodurre una voce”: è recitazione pura, è empatia, è costruzione emotiva del personaggio, qualcosa che nessun algoritmo può replicare davvero senza perdere l’anima dell’opera. Comprendo profondamente la preoccupazione del settore: dobbiamo evitare che ciò che l’uomo ha creato per facilitare alcuni processi venga utilizzato in modo improprio, fino a mettere a rischio intere professionalità. È fondamentale regolamentare, limitare e indirizzare l’IA affinché sia un supporto, non un sostituto dell’essere umano. In fondo, è sempre la stessa battaglia: la difesa del merito, della competenza, dell’arte vera. Che si tratti di favoritismi, volti noti improvvisati o tecnologia fuori controllo, il punto resta uno: senza meritocrazia non esiste qualità. E senza qualità non esiste futuro per un settore che, come il doppiaggio, ha fatto la storia dell’eccellenza italiana».
Restando sempre nell’ambito della Meritocrazia, quest’anno hai dato vita ad un blog dal titolo La gazzetta della Meritocrazia. Qual è il suo obiettivo; ce ne potresti parlare?
«In realtà, il mio blog è attivo dal 2013, anno in cui l’ho aperto come mio sito ufficiale artistico, contemporaneamente, per una felice coincidenza, all’istituzione del Premio Vincenzo Crocitti International – Vince Award. Inizialmente il blog era uno spazio personale in cui pubblicavo recensioni di film, pensieri, aforismi, e anche mie scene di film, con video di playback sincronizzato, una tecnica professionale che ho inventato nel 2006 e che permette di interpretare fedelmente scene cinematografiche con precisione e tecnica. Lo scorso anno ho deciso di evolvere il blog, intitolandolo “Gazzetta della Meritocrazia Artistica”, trasformandolo in uno spazio dedicato alla promozione del talento reale e alla valorizzazione del merito nel settore artistico. Qui pubblico progetti cinematografici che ritengo qualitativamente validi, conduco interviste ad artisti amici che dimostrano preparazione e dedizione, e promuovo eventi culturali e artistici di reale spessore. Dopo averne notato il seguito, ho voluto dedicarlo proprio per dare spazio agli artisti meritevoli, non solo professionalmente ma anche umanamente. Ho scelto di archiviare al suo interno anche tutto ciò che ho fatto artisticamente nel tempo, per lasciare maggiore visibilità a chi dimostra impegno, talento e integrità. Non è uno spazio “per tutti”: chi compare qui deve davvero meritarselo, sia per le interviste sia per la promozione di progetti (ndr proprio come il quotidiano “La Gazzetta dello Spettacolo”). È importante sottolineare che il dominio resterà sempre a mio nome, perché il blog era nato originariamente come il mio sito personale; ciò che cambia è solo il titolo e la missione: “La Gazzetta della Meritocrazia Artistica”, che rappresenta la direzione etica e culturale che ho voluto dare oggi. In questo senso, il blog è un altro “plus” accanto alla Ballata della Meritocrazia: entrambi strumenti con cui cerco di dare voce al merito, valorizzare chi lavora con impegno, studio e passione, e creare uno spazio di riferimento per chi crede nella qualità e nella professionalità nel mondo dell’arte».
Cinque anni fa è nato tuo figlio Leonardo Rafael. Personalmente amo molto i nomi e le loro scelte. C’è un motivo per cui lo hai chiamato così?
«Ci sono diversi motivi per cui ho scelto di dare a mio figlio due nomi, e in entrambi c’è sempre un collegamento sia artistico che personale.Il mio animale preferito sin da piccolo è il Leone: durante il periodo liceale a Parma, infatti, i miei compagni mi soprannominavano proprio “Leone”. Inoltre, alcuni sanno che lo scienziato, artista e inventore che ammiro maggiormente è Leonardo Da Vinci, e il mio attore preferito è Leonardo DiCaprio. Il nome Leonardo significa letteralmente “forte come un leone”, e il segno zodiacale di mio figlio è proprio Leone. Con questo nome gli auguro di incarnare forza, coraggio e determinazione, qualità che ho sempre cercato di coltivare nella mia vita personale e artistica. Il secondo nome, Rafael, significa “Dio è il guaritore”: per me rappresenta una forma di altruismo e di sensibilità verso gli altri, una virtù che spero possa sviluppare crescendo, come ho cercato di fare io. Questa è la ragione per cui mio figlio si chiama Leonardo Rafael: un nome che unisce forza, creatività, coraggio e altruismo. Desidero ringraziarti perché sei stata la prima giornalista a farmi questa domanda, e apprezzo che diventi pubblica, così un giorno mio figlio potrà leggere questa risposta e comprendere il pensiero e l’amore che hanno guidato questa scelta».
Cosa auguri a tuo figlio nello specifico e ai ragazzini in generale, dato che stanno crescendo in una società sempre più incerta e atipica?
«Quello che auguro a mio figlio, e in generale a tutti i ragazzi che stanno crescendo in una società sempre più incerta e atipica, è prima di tutto di essere liberi: liberi di pensare, di scegliere, di vivere secondo i propri valori. Vorrei che crescesse come un uomo leale, sincero, di principi, capace di mantenere saldi i suoi ideali anche quando tutto intorno sembra confuso o ostile. Gli auguro di realizzare i propri sogni, senza mai rassegnarsi o adattarsi a ciò che è facile o conveniente. Di essere altruista e buono, ma anche fermo e consapevole dei propri diritti, pronto a opporre resistenza alle ingiustizie, senza paura di difendere ciò che è giusto. Vorrei che, con la propria maturità, possa comprendere la vera differenza tra bene e male, tra chi è sincero e chi non lo è, e saper accogliere con intelligenza la verità delle situazioni. Mi auguro anche di poter essere per lui un buon esempio da seguire, mostrando che il bene si fa non per interesse personale o per ricevere applausi, ma perché si crede veramente in ciò che si fa. Spero possa comprendere che agire con integrità, responsabilità e passione è ciò che dà senso alla vita e costruisce una base solida per affrontare il mondo. E a tutti i ragazzi, il mio augurio è simile: credete nel vostro valore, coltivate i vostri talenti, difendete ciò che vi appartiene, e non abbiate paura di lottare per ciò che è giusto. Vivere con autenticità, coraggio, intelligenza e cuore è l’unico modo per affrontare una società complessa e costruire un futuro di cui essere davvero orgogliosi».
E Francesco Fiumarella cosa si augura?
«A me stesso auguro, tra cento anni, di essere ricordato dalle persone che mi hanno conosciuto per aver fatto del bene con tutto il cuore, l’anima e la sincerità possibile. Tutto ciò che faccio nasce da una convinzione profonda, non per interesse personale, applausi o riconoscimenti: lo faccio perché ci credo davvero, perché sento che è giusto farlo, e lo faccio con gioia e libertà, senza obblighi, senza fastidi, senza compromessi. Spesso mi sento dire: “Ma chi te lo fa fare?” e io rispondo che non importa. Io vado avanti per la mia strada, seguendo ciò che sento dentro, e se posso aiutare qualcuno, lo faccio senza calcoli, senza aspettative. È un atto naturale, un gesto di vita, un modo di essere che spero possa lasciare una traccia positiva nel cuore di chi incontro. Il mio augurio più grande è poter vivere e agire sempre secondo questi principi, e che la mia esistenza possa diventare, anche solo per pochi, un esempio di coerenza, passione e altruismo autentico. Voglio che ciò che lascio dietro di me non sia misurato dai successi o dai riconoscimenti, ma dalla verità delle mie azioni e dal bene fatto con il cuore, fino all’ultimo giorno».
In ultimo, un tuo saluto quale libero messaggio su ciò che umanamente e professionalmente ti sta più a cuore.
«Il mio saluto è un invito a vivere con autenticità, senza compromessi con ciò che non sentiamo vero dentro di noi. Umanamente, desidero che ciascuno impari a coltivare la propria libertà interiore, a riconoscere la differenza tra ciò che conta davvero e ciò che è effimero, a scegliere la lealtà, l’integrità e il rispetto come strumenti per costruire relazioni profonde e significative. Professionalmente, il mio pensiero va a chi lavora con passione e impegno: non arrendetevi alle logiche del favore o dell’apparenza, difendete la meritocrazia, la qualità, la competenza e il talento, perché solo così il vostro lavoro e la vostra arte troveranno valore autentico. Il mio messaggio più grande è che ogni azione, ogni gesto, ogni scelta deve nascere da un’intenzione pura, senza secondi fini. Perché ciò che seminiamo con cuore, integrità e coraggio, anche quando il mondo sembra non vedere, alla fine resta e fa la differenza. Vivere e agire così è forse la forma più alta di libertà e di verità che possiamo concederci».
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