Cristiano Leone. Foto di Manfredi Gioacchini
Cristiano Leone. Foto di Manfredi Gioacchini

Cristiano Leone: giovani, conquistate il palcoscenico del mondo

Chi ha una visione innovativa del mondo della cultura è sicuramente Cristiano Leone, Presidente della Fondazione Santa Maria della Scala di Siena e Membro del Comitato Artistico della Fondazione Nuovi Mecenati nelle categorie spettacolo dal vivo e performance.

Cristiano Leone, benvenuto sul quotidiano “La Gazzetta dello Spettacolo”. Come si articola il suo lavoro?
Il mio lavoro si sviluppa su due fronti: da un lato, mi occupo di costruire strategie manageriali per le istituzioni culturali; dall’altro, mi dedico alla creazione e definizione dell’identità artistica di queste stesse istituzioni. Questo avviene attraverso la concezione di progetti come festival, mostre, spettacoli, che possono essere ideati da me o insieme ad altri curatori e direttori artistici. Al centro della mia attività, tanto teorica quanto pratica, c’è la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e culturale, che realizzo tramite la cultura performativa delle arti contemporanee.

Cosa intende per “cultura performativa” e perché è così importante?
Quando parlo di cultura performativa, mi riferisco a quell’impulso intrinseco che spinge tutti noi, artisti e non, a metterci in scena, a interagire e a relazionarci con gli altri. Questo bisogno è sia personale sia universale e affonda le sue radici nella natura umana. La cultura performativa rappresenta il tentativo di conciliare corpo e idea, di appartenere a una collettività, offrendo così all’individuo un senso che va oltre la semplice esistenza materiale.

Potrebbe fare un esempio di come la cultura performativa si manifesti nella società contemporanea?
Certamente. Pensiamo a tutte le forme di spettacolo, dai riti ancestrali fino al festival di Coachella, che si è appena concluso. Questi eventi dimostrano come la cultura sia essenzialmente performativa, un flusso continuo e vitale tra creatori e spettatori, in costante dialogo con lo spazio urbano e la natura che ci circonda.

Cristiano Leone qual è il legame tra spazio urbano e cultura performativa?
Lo spazio e i suoi abitanti sono legati in modo indissolubile, creando configurazioni mutevoli e pulsanti che l’arte intercetta per instaurare un dialogo complesso con la società. Negli ultimi decenni, abbiamo visto un crescente investimento pubblico in questa relazione tra arte, cultura e spazi urbani. Questo legame non solo contribuisce alla rigenerazione del tessuto urbano, ma rappresenta anche un alleato ideale per i governi nel ridefinire politiche culturali e promuovere l’aggregazione, l’educazione e l’inclusione sociale.

Come si colloca l’elemento performativo nel panorama artistico contemporaneo?
L’elemento performativo è cruciale nei processi politici, sociali ed estetici collettivi. Esso utilizza linguaggi ibridi, esplora le tensioni dell’attualità e interroga l’ambiente, mettendo al centro il corpo e il gesto, sia del performer che dell’osservatore. Questo impulso si trova nelle dinamiche delle reti sociali e nei riti primigeni, dimostrando la sua universalità.

In che modo la performatività supera le categorie artistiche tradizionali?
La performatività non si limita alla “performance art”, teorizzata negli anni ‘70 da artisti come Joseph Beuys e Marina Abramovic, ma la trascende. Diventa un elemento del quotidiano, opponendosi al pregiudizio che l’arte contemporanea sia incomprensibile e distante dalla vita delle persone. La forza della performatività non si esaurisce in gesti estremi o provocazioni; è, piuttosto, il modo in cui ogni individuo si relaziona con gli altri e con il contesto che lo circonda.

Come la cultura performativa interagisce con il digitale e il metaverso?
Oggi viviamo nell’era della performatività, amplificata dal digitale. Il palcoscenico del mondo si è esteso attraverso il digitale e il metaverso, diventando un meta-palcoscenico su cui ognuno può esibirsi. Questa estensione ha permesso di sperimentare l’arte performativa anche in ambienti virtuali, dove artisti possono creare esperienze immersive e rivolgersi a un pubblico vastissimo. Il digitale non snatura il rapporto fondamentale tra performer e spettatore; piuttosto, lo trasforma, offrendo nuove possibilità di espressione e interazione.

Cosa pensa del futuro del lavoro in relazione alla digitalizzazione e all’intelligenza artificiale?
Il futuro del lavoro sarà inevitabilmente legato alla digitalizzazione e alla padronanza delle competenze digitali. Le professioni emergenti richiederanno una comprensione avanzata delle tecnologie e delle loro applicazioni. Tuttavia, nel nostro rapporto con la macchina, non dobbiamo dimenticare che la tecnologia deve restare al servizio dell’essere umano. La sfida sarà mantenere la nostra umanità al centro di questo processo, facendo in modo che la tecnica non ci alieni, ma potenzi la nostra creatività e capacità relazionale.

Qual è, secondo lei, il rischio maggiore della digitalizzazione?
Il rischio maggiore è una possibile dematerializzazione delle relazioni umane, una sorta di desolazione relazionale. La tecnica è uscita dalla sfera delle scienze diventando sociologia, antropologia, psicologia. Se non siamo preparati per questa trasformazione, rischiamo di trovarci in un mondo privo di empatia, dove le relazioni tra esseri umani e tra uomo e natura si svuotano di significato.

Come possiamo affrontare questi cambiamenti preservando la nostra umanità?
Dobbiamo tornare alle nostre radici simboliche e identitarie, riconoscendo che la macchina deve essere al servizio dell’uomo. È necessario sviluppare una conoscenza profonda della tecnologia, ma soprattutto coltivare ciò che ci rende umani. In quest’ottica, il principio di reciprocità diventa essenziale: la forza dell’umanità risiede nella sua capacità di unire gli individui, tanto materialmente quanto simbolicamente.

Quale messaggio finale vorrebbe lasciare Cristiano Leone, soprattutto ai giovani?
Invito i giovani a conquistare il palcoscenico del mondo, a essere protagonisti della relazionalità umana e dell’interazione con l’ambiente. Come diceva Nietzsche, ma piegando le sue parole al nostro scopo: nell’era delle macchine, l’unica soluzione per rimanere dominatori del nostro destino è essere “Umani, troppo umani”. Li esorto a coltivare una visione che includa sempre l’altro, per una performance etica e consapevole, che ci veda come organi di uno stesso corpo collettivo.

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