All you can eat il nuovo album degli Slivovitz

Slivovitz gruppo

L’ultima fatica discografica degli Slivovitz dal titolo ‘All you can eat’ è stata presentata il 17 settembre 2015 al Cellar Theory di Napoli.

A distanza di quattro anni dall’ultimo album ‘Bani Ahead ‘ la band ha seguito un nuovo percorso per la pubblicazione del nuovo album realizzandolo grazie alla campagna di crowdfunding che in soli due mesi, ha raccolto la pronta risposta dei fans che li seguono da 14 anni, raggiungendo l’obiettivo finale.

Proprio per il successo della campagna di crowdfunding gli Slivovitz sono tra i vincitori del Contest di Musicraiser il portale del crowdfunding,  ed andranno al ‘Medimex 2015‘ il 30 ottobre. Il Medimex 15 è il salone dell’innovazione musicale promosso da Puglia Sounds e rivolto a pubblico e professionisti della musica, che si svolgerà nell’ambito della Fiera del Levante a Bari dal 29 al 31 ottobre.

La formazione è composta da Derek Di Perri, Marcello Giannini, Vincenzo Lamagna, Salvatore Rainone, Ciro Riccardi e Pietro Santangelo.
Abbiamo posto qualche domanda a Pietro Santangelo il sassofonista ed autore del gruppo e Marcello Giannini chitarrista e compositore.

La vostra formazione è nata nel 2001, dopo 14 anni com’è cambiato il vostro modo di fare musica?

Marcello: E’ cambiato portandoci ad avere meno tempo di stare insieme, perché ognuno è concentrato sul proprio lavoro,  in quanto c’è chi fa il turnista, chi le lezioni, così ci incontriamo in sala una volta a settimana, portando i pezzi già scritti lavorando su quelli.

Pietro: E’ venuta meno la componente di creazione collettiva, anche se dal momento che siamo molto sanguigni anche se porti il pezzo ciò non vuol dire che si fa subito, devi lottare almeno per tre mesi. Capirai siamo sette di noi.

Marcello: Vero è che in realtà si potrebbe andare molto più veloce, ma abbiamo questo modo di fare che alla fine è costruttivo, perché ci metti più tempo ma arrivi ad un risultato più particolare e più personale.

Pietro: In questo modo il brano rispecchia le impressioni di tutti. Io è Marcello siamo quelli che scriviamo maggiormente come mole, il numero dei pezzi, ma il parere di Derek l’armonicista è molto importante. Nel processo creativo tutti sono molto importanti, Riccardo, Ciro, Salvatore, l’ultimo arrivato, Vincenzo, siamo tutti coinvolti. In questo disco c’è una prima composizione di Ciro Ricciardi che è venuta particolarmente bene, tutto il disco è venuto bene.

Quali sono i vostri musicisti di riferimento, ovviamente ognuno per il proprio strumento.

Marcello: Per me ce ne sono tanti, nel senso che non comprendono solo chitarristi, nel mio caso, però sicuramente ci sono i chitarristi jazz come John Scofiled, Bill Frisell, Marc Ducret, David Torn, però anche i chitarristi rock, che fa parte di me, quindi i gruppi come i Queen e Brian May che è il chitarrista, i Beatles, i Led Zeppelin. Poi Hendrix, Jimmy Page, ed i nuovi dove ci sono parecchi interessanti come gli Stonhenge.

Pietro : Per me a parte Napoli che ha una grande scuola di sassofonisti. Sono molto orgoglioso pensando di essere riuscito a suonare bene il sassofono a Napoli. Da James Senese, in poi ce ne sono tantissimi come Lerri Nocella, Enzo Avitabile, Daniele Sepe, Marco Zurzolo, Giulio Martino, Robert ‘Bobby’ Fix, fino ai giovanissimi come Luigi Di Nuzio, figlio d’arte che viene da una famiglia di sassofonisti. Poi per quanto mi riguarda le contaminazioni sono tutto, un nome su tutti, in questo momento è un grande vecchio Charles Lloyd, che a settant’anni investe nei giovani, ed ha ancora un timbro ed una freschezza nel suono incredibili. A me piace molto la musica etnica, mi piacciono i musicisti che non hanno semplicemente la common tracksis americana, però quando penso al jazz penso a Latif Khan, poi a Ravi Coltrane sfociato nel panteismo, uno che timidamente è divenuto un grande.

Le vostre creazioni sembrano nate da una jam session, eppure c’è un lavoro di arrangiamento dietro?

Pietro: Questa è una domanda difficile.

Marcello: La nostra musica è molto composta, non parlo a nome di tutti, sono contento della gestione solo-assolo anche se la ritengo leggermente obsoleta, mi trovo meglio con la scrittura, penso che arrivi di più, non disdegno gli assoli ma l’assolo deve essere un momento magico.

Pietro: L’assolo deve essere piazzato anche compulsivamente all’interno del pezzo con un equilibrio nella composizione.

Marcello: Diciamo che dal vivo tendiamo ad improvvisare di più, altrimenti ci annoiamo dopo due o tre concerti. Però cerchiamo di mantenere dei momenti di improvvisazione collettiva.

Pietro: Questa è una tendenza che viene dal jazz contemporaneo, con Marc Ducret, Steve Dern, musicisti che lavorano sull’improvvisazione ad altissimi livelli, dove spesso si usa l’improvvisazione collettiva anche completamente free come momento particolare di una composizione. Questo si può ottenere lavorando in modo estenuante sui pezzi in modo da arrivare a seguire qualsiasi sbilanciamento di quello che fanno gli altri. In ‘Dame un beso’ io non posso sapere cosa succederà durante l’assolo di Riccardo, in quantopossono capitare cose molto strane, sono sicuro nel mio assolo che dovrò suonare ad un volume pazzesco per dare la spinta finale prima di Derek e ci asfalta tutti, perché Derek ha questo istinto rockn’roll.

Marcello: Ma dov’è la libertà? Non c’è.

Pietro: La libertà è partecipazione, come diceva Gaber.

La vostra è una ricerca di sonorità, oppure il risultato di una elaborazione?

Marcello: E’ un incontro tra vari aspetti, ascoltiamo talmente tanta musica, che poi viene elaborata in maniera inconscia, dove ognuno poi tira fuori il proprio e lo mette nella nostra musica.

Pietro: A volte siamo anche molto consapevoli, che il gruppo è un vero e proprio organismo. Lavorare a quest’ultimo disco è stato per certi versi difficile, in un periodo non facile, con Domenico il bassista storico e fondatore della formazione che ha deciso di andare a vivere a Londra, questo ha dato una latenza. Tra gli altri dischi c’era meno tempo, per questo motivo  per ‘All you can eat’  ci abbiamo messo un pochino di più a farlo, anche perché eravamo molto combattuti su certe scelte. C’è un brano che ho scritto, che era uno studio su Frank Zappa, che io adoro, e non era pensato per suonarlo col gruppo, ma poi ci stava, perché questo disco è proprio jazz rock vero, anni settanta, molto modificato dal punto di vista sonoro, con suoni moderni.

Marcello: Il jazz rock degli anni settanta aveva il suono del rock and roll di quei tempi, Zappa ascoltava Hendrix, mentre oggi gli Stonehenge, gli Artic Monkeys rappresentano il jazz rock di oggi. La cosa bella del disco è che ha questi suoni.

Pietro: Il primo disco è stato totale inconsapevolezza ( ‘Slivovitz’ del 2006, n.d.r.), in ‘Hubris’ (del 2009) c’era un lavoro di produzione eccessivo, alla fine ci lavorammo troppo con una sonorità più povera rispetto a quella che volevamo dare. Con ‘Bani Haed‘ (del 2011) probabilmente abbiamo fatto l’errore opposto, in realtà ha un suono particolarissimo, anche se un team di audiofoni ce l’hanno bocciato completamente, dicendo che non è HI-FI. In verità eravamo anche un po’ contenti perché avevamo lavorato con Peppe De Angelis, mentre per questo disco l’ingegnere del suono Fabrizio Piccolo  è come se fosse una via di mezzo, ha fatto un editing più pop rock su certe tracce, però poi ha mantenuto il copro del suono vivido. Forse ce l’abbiamo fatta a fare un bel disco.

Digressione per i brani più datati,mentre le improvvisazioni per i brani più recenti. Ogni concerto è un concerto nuovo.

Pietro: Dipende molto dal pubblico, è nel rapporto che instauriamo con il pubblico, in ogni caso la scaletta cambia sempre.

Marcello: Non è che ce lo diciamo, però lo sappiamo, ormai dopo tanti anni di gavetta, che continuerà fino alla morte. Noi viviamo questa cosa della gavetta, più cresci più ti rendi conto alla fine che questo percorso che prima durava quattro o cinque anni, ora è più dilatato.

Pietro: E’ anche vero che questo genere musicale è difficile a inserirsi. Ad esempio il crowdfunding potrebbe essere un buon modo per mantenere la diversità musicale.
Avete attraversato diverse fasi,ad esempio l’introduzione della voce che poi è uscita. In che fase siete adesso?

Marcello: Siamo in una fasse di passaggio verso un salto di qualità, anche perchè stiamo raccogliendo qualche frutto dopo tanti anni. Stiamo raccogliendo quello che abbiamo fatto in questi anni, anche a livello di ascolti, improvvisazioni, concerti. In ogni caso una fase stabile. Una maggiore identità.

Spesso con altri gruppi in coesibizione, come quello con Daniele Sepe feat Kefaya,una progettualità musicale o solo una casualità?

Pietro: Kefaya nasce fondamentalmente dalla collaborazione dalla presenza di Domenico Angarano, perchè Domenico in atto d’amore nei nostri confronti ci ha tenuito a venire qui ed a proporre il suo attuale gruppo con il quale lavora a Londra e fa tournèe all’estero. Ci ha tenuto ad organizzare un concerto all’interno del Pozzuoli Jazz Festival dove Daniele Sepe ci aveva fatto da padrino con il primo disco, alcuni di noi hanno studiato personalmente con lui come Stefano Costanzoil nostro vecchio batterista, Riccardo Villari e Domenico. Daniele è veramente un personaggio, in grado di unire i musicisti, noi siamo molto legati a lui. Lì c’erano una collaborazione dettata dai legami, si sta parlando di una collaborazione più stabile con i Kefaya.

‘All you can eat’ uscito da poco, qual è il filo conduttore degli otto brani sttrumentali?

Marcello: Il jazz c’è sempre, è un’attitudine come il rock. Forse in questo un pò meno, ma l’intenzionalità c’è sempre.

Pietro: In questo album c’è il lavoro che mantiene la coerenza di chi ha studiato il jazz , come lavorare sulla libera espressione dell’idea durante l’assolo, dandogli un vestito con più colori. Non c’è un filo conduttore è una trama, è come se stessi facendo un vestito ma non ne hai uno solo ma diversi, uscendo poi fuori dalle limitazioni di questo o l’altro genere musicale.

Marcello: Il jazz può essere limitativo se preso univocamente, ma il jazz è tutto, è contaminazione, ma ad un certo punto non lo è stato più. Il jazz è sfondare le barriere dei generi, l’ha fatto Miles Davis che è il più grande di tutti, l’ha fatto John Coltrane, Shorter ecc.
Da dove nasce il titolo dell’album ‘All you can eat’ ?

Pietro: E’ nato una sera che eravamo a cena in un all you can eat, io, Marcello, Riccardo, Ciro, Salvatore. Ne puoi trovare tremila di spiegazioni perchè ‘All you can eat‘, una di queste è che come quei ristoranti dove tu vai e ti puoi cibare di tutto, nel caso nostro è l’eclettismo, il nostro volerci cibare di tutto, in senso musicale, riportandolo nella nostra musica.

Foto: Sabrina Cirillo

 

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Su Laura Scoteroni

Partenopea di nascita, viterbese di adozione. Giornalista con la passione per la cultura, la musica di qualità, la poesia. Attraverso le parole fermo il tempo di avvenimenti, note e immagini. Scrivere per me è come respirare, se possibile senza asma.

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